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Testa sui banchi, a scuola dal mental coach Marchese: “Serve allenare il cervello”

Tutto parte dalla testa. Non solo quando è alta, sicura, proiettata in avanti. Sono soprattutto le sue ombre, i pensieri e le paure del passato a far nascere “un’idea folle”, come quella che ha cambiato la vita di Marco Marchese. “Dai 4 anni ai 14 ho giocato nella Juventus, poi ho avuto una crisi epilettica in allenamento e ho trascorso otto mesi in ospedale. Non mi hanno confermato: facevo fatica a respirare per il senso di agitazione che provavo, non riuscivo più a esprimermi al meglio”.

Dopo aver capito che senza mens sana ne avrebbe risentito anche il corpo, Marchese ha deciso di intraprendere la carriera da mental coach. Sostenere l’approccio psicologico dei calciatori per migliorarne le prestazioni, un mestiere diventato ormai cruciale per i migliori club del mondo. “Non ci credeva nessuno, mi davano dello strizzacervelli”. La testa, appunto. La stessa che adesso cura ai giocatori di Serie A, Premier League e a quelli dei migliori campionati europei. E sulla quale lavorerà per sei mesi insieme ai suoi alunni della Mental Coaching Football School, un workshop in partenza il 16 gennaio 2025.

 

 

 

Marchese: “Mental coach, in America avanti già 18 anni fa: il Dortmund, l’Arsenal. Lautaro non è un caso”

Lasciare tutto in Europa e mettere la testa sui banchi in America: è da lì che 18 anni fa Marchese, appena maggiorenne, ha iniziato a guardare al nostro calcio con occhi diversi. “Il loro metodo utilizzato per studiare l’aspetto mentale dei giocatori sta arrivando solo adesso in Italia. Si guardava tanto al Manchester United di Ferguson. Il Borussia Dortmund, poi, aveva una palestra solo mentale. Ci si allenava solo così. Al giorno d’oggi i muscoli e le doti atletiche le hanno tutti, è il cervello a fare la differenza”.

Ma uno dei casi di studio principali arrivava da Londra Nord. “Ricordo quando ci fecero vedere un video dell’Arsenal di Wenger. Walcott aveva fatto tre errori consecutivi in quattro minuti: il suo linguaggio del corpo, la postura con le spalle basse, lo sguardo facevano trasparire solo nervosismo. Henry, da capitano, gli fece un gesto specifico per caricarlo e fargli capire che quella sarebbe stata la sua serata. Fu la mossa giusta: Walcott segnò”. Un filo di tensione che scorre in tanti calciatori, anche in Serie A. “Prendiamo ad esempio Lautaro Martinez. Può mai essere una casualità che si sblocca, seppur con un gol fortuito, e poi dopo due minuti, appena entrato nel secondo tempo, segna ancora? Non si sarebbe mai sentito così libero di fare quel tiro. Era più sereno e consapevole”.

 

 

“Longo, Varini, poi Giuntoli: il miracolo del Carpi partì dal gruppo”

Tornato in Italia, Marchese ha riaperto il suo bagaglio, riempito di idee ed esperienze, appena sono arrivate le prime chiamate colme di fiducia. “Devo ringraziare due persone: il direttore Varini e l’allenatore Longo mi diedero in mano la Pro Vercelli, ero neofita in questo campo e c’era scetticismo. Abbiamo fatto un lavoro straordinario”. E ancora oggi arrivano i riconoscimenti: “C’erano giocatori come Luperto, Provedel, Bani. Quest’ultimo l’ho sentito di recente, è il capitano di una piazza importante (il Genoa, ndr.), è un simbolo. Abbiamo mantenuto ottimi rapporti grazie al lavoro svolto insieme. Al tempo le persone mi prendevano per pazzo, ma noi ci affidavamo totalmente e senza pesi ai giocatori”.

Fiducia a non finire. Fino a quando il lavoro sulla testa riuscì a far compiere un miracolo al Carpi, promosso in due stagioni dalla Serie C alla Serie A tra il 2013 e il 2015. “La terza porta mi fu aperta da Cristiano Giuntoli in quegli anni. Il segreto fu la potenza del gruppo, la serenità, il sorriso”. Un miracolo sportivo, partito dal lavoro mentale: “Era un ambiente stupendo: quando qualcuno segnava il primo gol, si andava a cena tutti insieme. Non è mai capitato che qualcuno si assentasse. E quando iniziammo ad avere qualche problema poco prima della fine del campionato di B, dicemmo ai ragazzi ‘Divertiamoci, ci siamo quasi. Giochiamo felici’”.

 

 

Il caso Vitor Roque: “Depressione? Almeno due all’anno. La società impone maschere per i ragazzi”

L’aspetto psicologico nel calcio è cruciale soprattutto per i giovani. Basti pensare a Vitor Roque, la giovane stella brasiliana che ha dichiarato di aver affrontato momenti di depressione al Barcellona per via delle altissime aspettative di cui si nutrono il club e i suoi componenti. “Mi è capitato di avere a che fare con casi del genere. Succede almeno due volte l’anno”, ma Marchese ha le idee chiare su come affrontare problematiche del genere, di natura umana prima ancora che sportiva. “Io consiglio sempre di circondarsi di persone che vogliono bene al giocatore e che sappiano valorizzarlo. Il focus è il linguaggio, la comunicazione. I ragazzi a quest’età devono avere chiari i propri valori umani, prima ancora che sportivi. Viviamo in una società che ti obbliga a essere sotto pressione ogni giorno, a riempirti di maschere. Certi ragazzi non sono pronti per affrontarlo”.

 

 

Ed è da qui che nasce l’idea di un’accademia come la Mental Coaching Football School, che sappia approcciare i giovani sportivi partendo dalle loro virtù. “Il concetto chiave da cui inizio a lavorare è quello del ‘Perché’. Le persone vivono di immagini, le parole sono proiezioni. Io chiedo ai calciatori di disegnare il loro ‘Perché’, cioè il motivo per cui fanno tutti questi sacrifici. Il mio, ad esempio, era immaginarmi in spiaggia a giocare a calcio con il mio futuro figlio mentre mia moglie e l’altra figlia ci guardavano. E tutto ciò è successo, per questo devo lavorare il doppio per mantenerlo. Dopo il ‘Perché’, c’è il ‘Per chi’, cioè per quali persone fai tutto ciò”.

Un meccanismo che può innescare motori dal potenziale altissimo. Per Marchese, uno dei più rombanti gioca in Serie A: “Rafael Leao è una Ferrari. Per il valore, la classe e la bellezza di gioco che ha è incredibile. Ma erroneamente la gente pensa ‘Perché non si impegna?’, non è quello il problema. Spesso ci mette troppo tempo a coltivare se stesso all’interno delle situazioni. Quando rafforzi i tuoi valori, la visione diventa più chiara. Gli basta fare ordine e pulizia, senza aggiungere nulla di più. Se lavorasse sul suo ‘Perché’ o sul ‘Per chi’, sarebbe un possibile pallone d’oro. Ha tutte le carte in regola”.

 

 

E a proposito di potenzialità, cosa direbbe al se stesso 14enne Marchese se potesse parlargli da mental coach? “Se dovessero capitarmi casi simili, direi ‘Focalizzati sui tuoi punti di forza. Divertiti, perché l’unico modo per sfruttare la tua occasione è il divertimento”. Magari iniziando già a cercare il proprio perché.

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