Uno dei temi più sentiti negli ultimi anni è sicuramente quello degli stadi. Due, sostanzialmente, sono i quesiti più ricorrenti in tal senso: perché in Italia siamo così indietro rispetto al resto dell’Europa sugli stadi di proprietà? E quali potrebbero essere le novità nei prossimi anni?
Ne abbiamo, dunque, parlato con uno dei massimi esperti in materia, il noto giornalista Marcel Vulpis, editorialista del quotidiano L’identità per la sezione sport-business.
Quanto siamo indietro a livello di stadi e infrastrutture e quale può essere il modello da seguire?
“E’ presto detto: l’età media degli stadi italiani è di oltre 64 anni per la Serie A e di 68 per la B. Negli ultimi 15 anni, a livello Paese, sono stati spesi, nella ristrutturazione e costruzione di nuovi impianti, solo 200 milioni di euro, contro i 20 miliardi investiti a livello europeo.
Nel calcio tricolore si avverte, da tempo, l’esigenza di affrontare il tema delle strutture sportive con un approccio più innovativo. Si è di fronte ad una grande sfida culturale, oltre che economica: le strutture sportive invecchiano, occorrono investimenti (i presidenti dei club, in media, non dispongono di risorse per questa tipologia di investimenti, ma, di fatto, sono i gestori delle strutture), la pandemia ha prosciugato le casse delle società sportive (di solito fortemente indebitate), pertanto bisogna ottimizzare i costi per massimizzare al meglio la generazione dei futuri flussi di cassa, puntando soprattutto su nuove forme di partenariato pubblico-privato”.
In confronto agli altri Paesi europei come ti spieghi questa assenza di stadi di proprietà?
“Sicuramente in Italia si è sempre aspettato il cosiddetto “grande evento” per provare a riammodernare il parco-impianti a disposizione. Ad esempio, in occasione di Italia ’90, si sarebbe potuto fare un enorme salto di qualità, cosa che purtroppo non è avvenuto.
Adesso si parla della candidatura della FIGC per Euro 2032. Mi auguro che il nostro progetto possa essere valutato al meglio dall’UEFA e che questo appuntamento (in caso di vittoria) diventi, con un pizzico in più di coraggio e attenzione da parte della nostra classe politica, una grande opportunità di riscatto. Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ci crede fermamente e l’intero mondo del calcio deve sostenere la candidatura. Per il mercato italiano sarebbe un risultato unico”.
Quali soluzioni, detto che gli stadi costituiscono da sempre un volano di entrate vedasi caso Juve, per ovviare a questi problemi?
“Negli ultimi 30 anni (da Italia ’90 ad oggi) il numero degli stadi di nuova concezione, o totalmente riammodernati, non ha superato le dita di una mano. Nello specifico l’Allianz stadium (Juventus), il Mapei stadium (Sassuolo calcio), la Dacia Arena (Udinese), il Benito Stirpe (Frosinone) e il Gewiss stadium (Atalanta). Altri progetti sono in cantiere (Bologna, Cagliari, Fiorentina e soprattutto Roma), ma i tempi di attuazione, imposti dalla burocrazia italiana, stanno rallentando il normale iter dei lavori.
L’accelerazione del processo di rinnovamento dell’impiantistica è legata, a filo doppio, a un nuovo modello finanziario-economico. Bisognerebbe ad esempio seguire il modello tedesco, che, nel 2006, partendo da un perfetto mix tra investimenti pubblici e privati, ha puntato a rinnovare l’intero parco-impianti della Bundesliga (l’equivalente della Serie A italiana), oggi punto di riferimento a livello europeo.
Per arrivare a questo traguardo il calcio tedesco è partito dalla stabilità del sistema. La stragrande maggioranza dei club professionistici di prima e seconda divisione, già dalla stagione 2011/12, ha iniziato a registrare conti in attivo. Poter contare su ricavi crescenti, senza dover rincorrere alchimie contabili o modelli di finanza creativa, ha generato due effetti positivi. Da un lato il surplus economico è stato sempre reinvestito sul progetto sportivo, oltre che sulle strutture (a partire dai centri di allenamento per prima squadra e giovanili); dall’altro anche il governo nazionale ha riconosciuto al sistema calcio di essere una vera e propria industria, con fatturati costantemente in crescita e benefici economici tangibili sui rispettivi territori”.
E’ remoto pensare anche in Italia di avere stadi quali strutture sociali a 360 gradi e quindi in una dimensione calcistica?
“Non è remoto, ma neppure avverrà in tempi brevi. E’ auspicabile pensare ad uno stadio come modello di socializzazione, aggregazione e fornitore di servizi a valore aggiunto ad esempio per i tifosi-cittadini di un distretto urbano.
Un benchmark vincente da seguire è il progetto di azionariato/ coinvolgimento della fan base da parte della dirigenza del St. Pauli FC (secondo club della città di Amburgo, dietro all’Hamburg SV), stabilmente nella “cadetteria” tedesca. Ci troviamo di fronte ad una tifoseria che supporta, in tutto e per tutto, il club/squadra, ma, nel contempo, viene coinvolta in tutti i processi decisionali nel corso della stagione sportiva.
La nursery, dentro e fuori lo stadio, è nata, ad esempio, dalla raccolta di denaro tra i tifosi. Il coinvolgimento, in tutta una serie di iniziative sociali, è nel dna storico del club, da sempre molto attento alle iniziative di corporate social responsability.
Il St. Pauli nasce dalla passione dei supporter residenti nell’omonimo quadrante della città. Logico quindi che gli stessi vogliano essere coinvolti in tutti i progetti del club. Nel 2011 tra l’altro la società è stata oggetto dell’interesse di una produzione italiana. Quest’ultima ha realizzato un docu-film (denominato “Paulinenplatz”) proprio per raccontare, a 360 gradi, il progetto del club dei “pirati” (il simbolo non ufficiale, ma molto amato a livello di merchandising nel mondo, è proprio la bandiera dei pirati)”.
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