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Tra terra e cielo. Eternamente Di(eg)o

Muriò Diego Armando Maradona. Quando è apparso il titolo del Clarin in chat, abbiamo avuto una istintiva reazione di rifiuto. Come quei no che ti escono senza pensare, come quelle verità che vuoi allontanare. Abbiamo guardato quel verbo e provato a non crederci. Muriò, che parola beffarda. Quelle due lettere finali, così uguali a un 10, ad annunciare la morte del 10.

Non può essere vero, dai. Sarà solo l’ennesimo dribbling, la finta a cui abboccano tutti. Vedrai che Diego uscirà palla al piede o con un cappellino in testa da quella nuvola di gente che gli fa da contorno. Ieri erano difensori, poi amici finti e veri, dottori e mercanti.

Falleciò, scrive ancora il Clarin. Il 10 al passato remoto. L’io collettivo che si guarda indietro. Quante persone avete rivisto in queste ore? Molte non ci sono più e rivivono all’improvviso nella mente. Quante persone che avete amato hanno pronunciato quelle magiche quattro sillabe? Ma-ra-do-na. Eravate su quel divano che oggi chissà dov’è finito. Siete andati a vederlo allo stadio e siete rimasti incantati a guardare il suo riscaldamento. Non c’erano filtri, né smartphone, ma quei ricordi non si cancellano come storie da 15 secondi.

Non c’è la mano de Dios stavolta. O forse sì. Perché quello che succede tra colleghi rimane un mistero insondabile. Diego è sempre stato tra terra e cielo. Un aquilone cosmico, “barrilete”, per dirla con Victor Hugo Morales, il telecronista argentino che accompagnò i 12 tocchi e 44 passi del gol più bello di sempre. Era il 22 giugno del 1986 e quel giorno Maradona avrebbe scartato anche la Regina, il Big Ben e Buckingham Palace. Tra terra e cielo, perché pochi minuti prima aveva alzato quel pugnetto beffardo. La vendetta per le Malvinas sottratte all’Argentina. Hasta siempre comandante Diego, leader massimo di sognatori e ribelli. Che ironia morire nello stesso giorno del tuo amico Fidel, quattro anni dopo. Che follia darti l’addio un 25 novembre, la stessa data che si portò via George Best.

Non è giorno da santi. Nessuno di quei tre lo era. Dio, almeno quello col 10, non ha l’aureola. Ha commesso una serie di errori che gli hanno accorciato la vita. Quel corazòn che ha fatto battere a napoletani e non, è stato violentato dagli eccessi. Eppure, appena la morte faceva capolino, Diego le piazzava un pallonetto. E ci sembrava il suo ennesimo urlo contro il destino, come quello del ’94, in quel mondiale che fu rinascita e anticamera della lunga agonia successiva. Chissà dov’è oggi quella ragazza dell’antidoping che lo scortò verso il patibolo. La sua prima Caronte, sorridente e ingenua. Nel 1994 un po’ di Diego è morto e quello che fa più male è che alcuni hanno visto Maradona solo per le conseguenze di quel giorno.

Il tempo forse andrebbe fermato a quell’urlo in camera. Se riavvolgiamo il nastro da quell’estate del ‘94, possiamo rivedere il cammino di un uomo di 33 anni che moltiplicava sogni ed emozioni. Non camminava sull’acqua, ma volava sull’erba. Non sapremo mai quanto si è costruito la sua croce o quanto si sia fidato dei Farisei. Ha avuto intorno molti Giuda e i suoi apostoli funzionavano solo quando erano 10. Più lui. Dieci più Maradona, così vinse il mondiale. Diego e altri 10, così il Napoli raggiunse vette mai eguagliate. Mai sarà riproducibile una simbiosi simile tra una città e un forestiero. Perché Maradona è stato il Dio imperfetto in cui specchiarsi. Il genio generoso e il ragazzo problematico. Masaniello e masochista, gioia e lacrime. Ha vissuto un’epoca in cui non si potevano mettere maschere, è morto in un giorno in cui non le possiamo togliere. Eravamo già soli, adesso lo siamo ancora di più.

Eppure, più delle parole, potrà il tempo. Rimuoverà quello strato di maledizione che ha accompagnato gli anni peggiori e farà riemergere solo quel sinistro inimitabile.

Se esiste qualcosa di là, gli altoparlanti avranno già messo Live is life. Come quel giorno a Monaco. Ancheggia, freme, palleggia con la testa e scatta. Questa fuga in avanti non ce l’aspettavamo. Ma di un passato remoto, resta solo il 10.

Claudio Giambene

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