Categories: Interviste e Storie

Innovazione, coerenza, onestà: Lucho, hombre vertical della Spagna

Luis Enrique? Chiamatemi Lucho“. Prima persona del verbo luchar, “lottare” in spagnolo. Nomen omen. Perché Luis Enrique Martinez Garcia ha sempre dovuto e voluto lottare, nel calcio e nella vita. In campo, col suo metro e ottanta, per imporsi in un calcio sempre più fisico. Poi in panchina, per affermare le sue idee e veder riconosciuto il proprio valore. 

Luis Enrique ha portato avanti ogni sua battaglia con le armi della coerenza, dell’integrità morale e della schiettezza. Virtù talvolta ostentate, più spesso messe in pratica. Diretto, mai banale, anzi spesso sorprendente. Un innovatore che non ha mai voluto essere chiamato genio. Dall’eredità di Guardiola alla scommessa Roma, il Triplete col Barcellona di Suarez-Messi-Neymar. Ma anche la morte della figlia Xana e la rottura col vice Moreno. Fino a oggi, al Mondiale con la Spagna dei ragazzini, la più grande sfida, la lotta più esaltante. 

 

 

“Il miglior allenatore della Terra”

Sono il miglior allenatore sulla faccia della Terra, come faccio a dubitare di me stesso?“. Parole pronunciate pochi giorni fa nella conferenza stampa di presentazione del Mondiale. Non ci crede veramente, Luis Enrique. Non è mai stato un maestro, non si è mai seduto in cattedra, né ha avuto l’ambizione di cambiare il calcio. Quando parla alla stampa è sempre una valanga di parole, una macchinetta, quasi da mal di testa: colpa anche di una voce roca, strozzata, quella di chi non risparmia un grido, un’indicazione, un rimprovero. Luis Enrique stabilisce rapporti franchi e diretti; è spontaneo, dice sempre ciò che pensa, senza filtri. Niente di più remoto dai tic – verbali e gestuali – di Guardiola. Pep ha rinunciato a spiegare “ai comuni mortali” il suo calcio, ha perso la romantica inclinazione alla didattica che ancora coltivava nel 2006, quando dalle colonne del Pais raccontava la tattica del Mondiale tedesco; Lucho invece ti trasmette la passione del ragionamento, infiamma la dialettica con teatralità, come quella volta del “Puede ser que sì, o puede ser que no” subito diventato meme. Se Guardiola assomiglia sempre di più al freddo van Gaal, il maestro che diede un metodo alle sue intuizioni cruyffiane, Luis Enrique si avvicina a Valdano, suo allenatore a Madrid, meraviglioso affabulatore del fùtbol. 

 

 

Il confronto con Pep non ha mai entusiasmato Luis Enrique, che col tempo è stato costretto però ad adeguarsi. Ne aveva raccolto l’eredità al Barcellona B, quando Guardiola era stato promosso da Laporta. Prosegue il suo lavoro, almeno idealmente, quando lo richiamano per allenare il Barcellona del trio Messi-Suarez-Neymar. Da subito il gioco di Luis Enrique appare altra cosa rispetto al guardiolismo: da buon pragmatico, Lucho capisce che prima ricevono la palla i tre davanti, meglio è, e quindi abolisce il tiki-taka in favore di un calcio più diretto, verticale. Il 6 giugno 2015, all’Olympiastadion di Berlino, l’apoteosi, con la quinta Champions League della storia blaugrana vinta contro la Juventus e il triplete riportato in Catalogna dopo quattro anni. Il destino riallaccia il filo fra lui e Pep. 

 

 

Il silenzio del deserto

Triathlon, ironman, maratone nel deserto. Il silenzio, oasi di pace per un grande oratore. Gli altri sport come vie di fuga dallo stress del calcio. Una passione totalizzante per la competizione, trasmessa anche alla figlia Sira, campionessa di ippica. Resistenza, fatica, dedizione: ecco da dove viene quel carattere. Lucho ha bisogno di tornare all’essenziale, di tanto in tanto, per ricaricarsi. Soprattutto dopo quanto successo nel 2019: Xana, la piccola di famiglia, muore a nove anni per un tumore osseo. Una vicenda che costringe Luis Enrique a mollare la panchina della nazionale spagnola per qualche mese. Riprenderà da dove aveva lasciato, allontanando il vice Robert Moreno, che aveva avuto l’interim, con l’accusa di slealtà. Si torna sempre lì, ai princìpi fondamentali che lo ispirano: rettitudine, onestà, lealtà. Anche quando la cronaca è avversa, Lucho ha fede nella storia, convinto com’è che gli darà ragione. Lo ha imparato a Roma, da dove se n’è andato addossandosi ogni colpa, poco rimpianto anche per aver spedito De Rossi in tribuna dopo un ritardo di un minuto. Seguiranno la redenzione e la consacrazione, dell’uomo e dell’allenatore. Tornerà lo stesso coraggio, il rischio spacciato per calcolo, come quando a San Siro lancia dal primo minuto il 2004 Gavi, col nove sulla schiena. 

 

 

La comunicazione di Luis Enrique

Non solo il campo, però: nella sua seconda esperienza con la Roja, Luis Enrique ha deciso di sperimentare anche in altro modo. Con una comunicazione al solito sorridente – vedi il siparietto con Chiesa a Euro 2020 – ma anche tecnologica. Fa mettere ai suoi calciatori delle radioline perché possano sentirlo meglio durante gli allenamenti. Annuncia le convocazioni con le card di Fifa, o mentre va in bici. E poi l’ultima novità: le dirette Twitch durante il Mondiale, per spiegare ai tifosi le decisioni. Un salto nel futuro? Un autogol? Lo sapremo presto. Ma quel che è certo è che a Lucho interesserà poco. Lui ha rinunciato da tempo ai giudizi; alla volatilità della cronaca ha preferito la coerenza della storia. Prendere o lasciare. 

Andrea Monforte

Classe 2000, monzese (d’adozione), studio Lettere a Milano. Un’indomita ed ereditaria passione per lo sport (calcio, ovviamente, ma anche ciclismo), declinata in “narrazione” tecnica e sentimentale: la critica della complessità come antidoto alla semplificazione. La vaghezza del ricordo personale ha reso l’azzurro del cielo di Berlino 2006 un’indelebile traccia mitologica. Sono nato lo stesso giorno di Ryan Giggs e di Manuel Lazzari, ma resto umile.

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