“Al ritorno possiamo anche fargliene 6“. Luis Enrique presentava così un Barcellona-Paris Saint Germain di qualche anno fa. Era il marzo del 2017, e al Camp Nou si sarebbe compiuta la Remontada, con la R maiuscola. I blaugrana ne fecero sei, come da previsione del loro allenatore. Sei a uno, contro il quattro a zero subito all’andata.
L’urna di Nyon ha riallacciato i fili del destino: sarà ancora Barça contro PSG. È un Luis Enrique diverso, quello che sette anni dopo siede dall’altra parte. Forse meno spavaldo, ma sempre brillante; un po’ invecchiato, sì, ma altrettanto sicuro di sé.
Vale la pena tornare a quella frase. Non una minaccia, ma un saggio di autostima e dominio della situazione. “Siamo più forti“: dei loro soldi, della loro fame, del loro 4-0. Questo intendeva Luis Enrique, questo seppe dimostrare il Barcellona con una delle imprese sportive più clamorose di tutti i tempi. Il Paris fu punito dall’inesperienza, dal gap tecnico e soprattutto dall’autoconvinzione che ormai il lavoro fosse finito, che la pratica dei quarti fosse già sbrigata.
“Mes que un club“. Il PSG non ha mai saputo essere “più di una squadra”. O meglio lo è diventato, ma nello stesso senso del Barcellona: con gli investimenti, non col senso di appartenenza, o con un gioco riconoscibile dalle giovanili alla prima squadra. Ora che quel “Loro” si è trasformato in un “Noi”, Lucho, hombre vertical, vuole cambiare la storia. In campionato non c’è nemmeno discussione, il titolo arriverà. Ma a Parigi la sensazione è che mai come quest’anno si possa ambire al bersaglio grosso, alla Champions che ancora manca in bacheca.
Il tabellone non è proibitivo: dallo stesso lato ci sono Atletico e Borussia Dortmund, sulla carta entrambe inferiori. Sarà la “Last Dance” di Mbappé? Sette anni fa i parigini videro all’opera Neymar in quella che forse fu la sua miglior prestazione della carriera in Champions, e decisero di acquistarlo l’estate successiva. Il massimo risultato raggiunto col brasiliano fu la finale del 2020, contro il Bayern, persa con gol di Coman. Oltre al danno, la beffa: il campione pagato più di duecento milioni che soccombe per mano dell’ex enfant prodige, lasciato andare (destinazione Juve) forse con troppa disinvoltura.
Dal 2017 a oggi, Luis Enrique ha vissuto sette vite, non sette anni. L’addio al Barcellona l’estate successiva, la scelta della nazionale spagnola. Una semifinale a Euro 2020 coi ragazzini, nel frattempo la malattia e la morte della figlia Xana. L’accusa di slealtà al suo ex braccio destro Moreno, l’insuccesso in Qatar. Nel frattempo se n’è parlato per le sue innovazioni: le dirette Twitch coi tifosi durante i Mondiali, i walkie-talkie in allenamento, le convocazioni annunciate in modi stravaganti. Fino al ritorno in un club, proprio il PSG. E alla sfida del destino, che può influenzare il giudizio su un’intera stagione.
Triathlon, ironman, maratone nel deserto. Sono le passioni di un uomo che non si è mai accontentato. Diretto, schietto, divertente. Come quando poche settimane fa ha scherzato: “Mbappé in panchina? Dipende dal meteo“. Sette anni dopo, al posto della spavalderia c’è la serenità di un uomo più maturo, che dà il giusto peso alle cose. Ma che sa anche che una sola partita può segnare per sempre il corso degli eventi.
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