Mai stato un tipo freddo, di ghiaccio, un introverso. Uno di quelli che pensano, ragionano, poi agiscono. Simone Inzaghi è istinto, emozioni, ma oggi ha cambiato versione.
Si è tenuto perfino la giacca, e il vento romano c’entra zero. Stesso discorso per il risultato, 3-1 con gol di Perisic, Immobile, Felipe Anderson e Milinkovic, una di quelle sconfitte che l’avrebbe fatto infuriare come pochi, roba da su e giù nell’area tecnica con tanto di richiamo all’amico Farris. “Massi, che facciamo?”.
Stavolta Inzaghi è stato calmo, ha bevuto freneticamente dalla bottiglietta una decina di volte e non ha esultato al gol di Perisic. Ha guardato a terra, lanciato la bottiglia d’acqua e sussurrato qualcosa allo staff. Durante il rigore di Immobile si è seduto in panchina e non ha detto nulla (scaramanzia, una delle tante). Freddo.
Come se l’Olimpico, per vent’anni suo, l’avesse raggelato un po’. Sarà stata l’accoglienza riservata al vecchio amore, uno di quelli che passano gli anni e non ti scordi. Del resto, come si può? Quel coro “Inzaghi, Inzaghi” cantato dalla curva o i fischi mai arrivati. “Sono pronto a qualsiasi cosa”, aveva detto. La Nord gli ha riservato uno striscione, lo stadio un applauso, lui ha ricambiato agitando la mano e salutando, come quando vinceva derby, partite e trofei.
Stavolta ha la divisa dell’Inter e un’altra sfida da vincere, perché l’ambizione conta. Come le promesse – “a Lazio-Inter vengo sotto la Nord” – perché Simone non sarà la bandiera perfetta, ma ci tiene. Gaia lo sa bene, testimone una decina d’anni fa: “Vedi l’Olimpico? Prima o poi allenerò lì”.
E lei rideva, guardava fuori dal finestrino, mentre l’obelisco di marmo si faceva più piccolo nello specchietto. Ogni volta che passavano lì vicino, Inzaghi lo diceva. Col tempo, i trofei, l’ambizione, quello stadio è diventato suo davvero.
In estate ha lasciato come sappiamo: è uscito da Formello suonando il clacson, come se fosse un messaggio in codice per dire “ho rinnovato, resto a vita, quando si comincia?”, e invece è andata come è andata. I tifosi ci sono rimasti male, forse non gliela perdoneranno mai, ma alla prova del 9 – cioè il ritorno – la risposta è stata quasi unanime: tutt’altro che indifferenza.
Perché Inzaghi è stato l’allenatore con più panchine nella storia della Lazio (251), ha vinto tre trofei, ha riportato il club ai gironi di Champions dopo 13 anni. Sarri vince 3-1 e imbriglia l’Inter nella ripresa, prima sconfitta in campionato dei nerazzurri e proprio all’Olimpico. Uno dei gol decisivi è di Felipe Anderson, uno con cui Inzaghi non ha mai legato sul serio.
Nel 2017/18 gli faceva fare la seconda punta e a “Pipe” non piaceva. Dopo un Lazio-Genoa di campionato ci fu un brutto litigio nello spogliatoio e il rapporto si ruppe in modo brusco, definitivo. In estate l’addio al West Ham per 30 milioni. Oggi il gol vittoria è proprio il suo, e fa scattare pure un parapiglia. Anche lì, a bordo campo, Inzaghi osserva con le mani in tasca.
Come resta immobile al gol di Milinkovic. In altre circostanze avrebbe sguaiato la spada. Contro la Lazio no. E anche se ha perso, anche se dentro rosica, quell’obelisco in marmo bianco, ogni giorno, per sempre, gli ricorda che i sogni si realizzano.
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