Jurgen Klopp e il Liverpool. Un legame unico, indissolubile, ancor di più dopo il rinnovo di contratto fino al 2026, annunciato nel pomeriggio. Una firma che sancisce una volta di più la speciale sintonia tra un uomo e una storia, uno stadio, un micromondo, quello di Anfield Road.
Il Liverpool ha affidato allo stesso Klopp l’annuncio, con un video sui canali ufficiali del club: “Mi sono chiesto se ho ancora l’energia e le sensazioni giuste per guidare questo club. Mi sono risposto, semplicemente, che amo questo posto e non potrei sentirmi meglio“. Poche parole, semplici, accompagnate da un sorriso: “Kloppo” è fatto così, a Liverpool lo amano per questo.
E dire che era arrivato con la fama del “perdente di successo“: la vittoria del Meisterschale ai danni dell’imbattibile Bayern non era bastata per cancellare un’altra sconfitta, sempre contro i bavaresi, nella finale di Champions del 2013 a Wembley. Era il 2015, a Liverpool volgeva al termine l’esperienza di Brendan Rodgers, che era stato a un passo dalla conquista della Premier dopo anni e anni dall’ultima volta: non fosse stato per la scivolata di Gerrard, chissà quale direzione avrebbe preso il destino. E invece è andata così, la redenzione dei Reds è stata affidata a un ex difensore di livello mediocre, biondo, occhialuto. Un nerd del pallone, non esattamente l’ideale per risollevare un ambiente depresso. E invece…
E invece Klopp ci mette poco per conquistare i suoi tifosi. A diventare prima “Kloppo” e poi “Kloppo the rockstar“, un allenatore che sorprende i suoi tifosi al pub e canta con loro. Il quinto Beatle, un trascinatore di folle. Con quella somiglianza fra il suo cognome e la curva più rumorosa e commovente d’Inghilterra, la Kop, a dire che sì, lui era l’uomo del destino. Al primo anno di Klopp, il Liverpool arriva ottavo in Premier: ma non importa, tutti lo sanno che quello strano personaggio che in panchina sbraita contro chiunque, salvo poi sfoderare la dentatura davanti alle telecamere, riporterà il Liverpool dove merita. Due quarti posti, un secondo (con 98 punti!) dietro al City. La Champions League, dopo una delle rimonte più straordinarie che il calcio moderno ricordi, il 4-0 al Barcellona. Poi la tanto attesa Premier, dopo 30 anni di attesa: la soddisfazione per un traguardo storico, mista alla delusione di non poter festeggiare davanti ai tifosi per colpa della pandemia.
Il palmarès conta due premi come allenatore dell’anno; un Mondiale per Club, una Premier, una Champions (e un’altra finale a un passo); una Coppa di Lega. Ma Klopp è riuscito in un’impresa ancora più straordinaria in questi anni. Più della Champions, più dell’essere diventato l’allenatore più longevo della storia moderna del Liverpool dai tempi di Bill Shankly. Ha creato il “momentum“, il kairòs dei greci: uno stato di estasi permanente, un amore che dura un battito di ciglia ma acquista i contorni indefiniti dell’assoluto. Una sinfonia celestiale, quella del suo gioco, quella di uno stadio che batte allo stesso ritmo della squadra. Una sintonia inaudita: Klopp è Liverpool, “the right man in the right place“. Un giorno gli dedicheranno una statua, come a Shankly, fuori da Anfield. Nel frattempo, è ufficiale: per almeno altri 4 anni, non camminerà mai da solo.
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