Chi decide di legare a vita il suo nome a quello del Tottenham sa cosa aspettarsi: un carico di prese in giro, aspettative frustrate, rimpianti. La vita di Harry Kane, sportiva, professionale e non solo, è sospesa da sempre in un limbo: da una parte la consapevolezza del campione a cui manca solo la vittoria per consacrarsi, dall’altra il desiderio di trascinare la sua squadra, quella per cui fa il tifo, in una nuova dimensione. Il sentimento che confligge con l’ambizione, l’appagamento dei record svuotato di senso dalla lontananza del vero traguardo, ormai sempre più simile a un miraggio.
Ora che è diventato il miglior marcatore della storia del Tottenham (267 gol, l’ultimo contro il Manchester City domenica scorsa), “Hurricane” si chiede ancora una volta chi vuol essere da grande. Se un magnifico perdente, l’idolo di un popolo condannato alla mediocrità, o una delle tante stelle del Real Madrid, del Manchester City, del Barcellona.
Il momento dell’addio sembrava arrivato nell’estate del 2021: Harry salutò tutti, ma non si commosse. Aveva la consapevolezza del leader, voleva mostrarsi forte e deciso. Prima di tutto a se stesso. Poi le circostanze lo indussero a rimanere, e lui fece il miracolo: nessuna contestazione, tutto tornava come prima, come se non fosse successo nulla nel frattempo. C’è tanto anche di Antonio Conte, della sua straordinaria capacità di motivazione, nella rinascita di questo ragazzo diventato uomo fra un prestito e l’altro, sui campi di Leyton e quelli di Leicester. Ecco perché la telefonata di Antonio nel post-partita ha un valore particolare per Harry, che poco prima aveva parlato ai suoi tifosi (che lo celebrano sempre come “one of us“) ricordando l’emozione del primo gol in Premier, “al Sunderland, in un monday night“.
“To dare is to do“. Il motto del Tottenham, impresso sulla gradinata del modernissimo stadio degli Spurs, ha sempre avuto l’ambiguità del doppio senso. Osare è il primo passo per fare qualsiasi cosa, nell’interpretazione dei tifosi. Osare come unica soddisfazione possibile, visto che il “fare”, cioè vincere, non è proprio cosa loro, dicono invece gli avversari dell’Arsenal (“thirteen league titles, you only won two“).
Ma Harry non polemizza, non è nel suo stile: se un giorno se ne andrà, tutti lo rimpiangeranno e nessuno lo odierà. Lascerà il ricordo dei gesti semplici e gentili, il difetto di pronuncia mai nascosto. Se rimarrà, continuerà a rincorrere un trofeo, infrangerà altri record. Continuerà ad alimentare i sogni e i rimpianti di un popolo appeso alla sua caviglia martoriata, ai suoi tiri dal dischetto. “To dare is to do”: solo lui, un giorno, potrà capire cosa significhi davvero.
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