I capelli sono più corti, ma il soprannome El Bati è rimasto e il suo italiano forse è addirittura migliorato. 16 gol nella sua esperienza in Italia, di cui 3 al Napoli, in uno stadio che è stato recentemente intitolato a Maradona. “Quella tripletta non aveva molta importanza, oggi però ha un significato speciale. Quello sarà sempre uno stadio mitico per gli argentini”. A parlare ai microfoni di Gianlucadimarzio.com è Joaquin Larrivey, attuale capocannoniere del campionato cileno. “Volevo farla questa intervista perché avevo tanta voglia di mettermi alla prova. Quando mi hai chiamato e mia moglie mi ha sentito parlare in italiano è rimasta molto sorpresa, chissà forse l’ho conquistata (ride, ndr)”.
A Santiago ci è arrivato a inizio 2020, con la missione di salvare una nobile come la Universidad de Chile. La Federazione cilena ha sospeso i campionati nel 2019 a causa degli scontri e delle manifestazioni contro il presidente Pinera, e ha inserito la formula dei Promedios per stabilire le retrocessioni nel nuovo anno. “Ora siamo sesti e stiamo facendo meglio. Fino alla fine però dovremo stare attenti al pericolo retrocessione, per questo dobbiamo continuare a vincere”. 16 gol sin qui per l’argentino, che ha accettato questa sfida dopo l’esperienza al Cerro Porteño. Dal Paraguay al Cile su consiglio della famiglia. “Mia moglie è nata qui, quando mio suocero giocava nell’Universidad Catolica (gli eterni rivali, ndr). Mi sento sempre con lui che è stato un idolo della Catolica ed è molto amico del ds della U de Chile”.
Sono trascorsi 13 anni dal suo arrivo in Italia. Cinque stagioni in Serie A con la maglia del Cagliari, intervallate dai prestiti al Vélez e al Colón. “All’inizio è stato difficile, non parlavo l’italiano e non giocavo molto. Ero giovane e lo stile di vita era diverso, ma è stata un’esperienza bellissima. Ho conosciuto una città e un popolo fantastico”. Tanta nostalgia di quei ricordi e tanta voglia di tornare. “Vorrei rivedere i vecchi amici con cui sono rimasto in contatto. Era un bel gruppo, che non mi ha fatto sentire la distanza dall’Argentina”. Ancora oggi, grazie ai social, si sente con tanti di loro. Da Conti a Matri, fino a Ibarbo che aveva rivisto in Giappone. Senza dimenticare Astori. “Quando giocavo in Spagna mi venne a trovare perché voleva che conoscessi sua figlia e sua moglie. Lui è sempre stato un grandissimo compagno ed è sempre rimasto umile, non a caso è diventato il capitano del Cagliari e della Fiorentina. Quando ho saputo della sua scomparsa, ci sono rimasto malissimo come tutti, perché sapevo quanta classe avesse”.
Tanti compagni e allenatori, ma chi non cambiava mai era il presidente, Massimo Cellino. Che si dice avesse un debole per lui. “Un pazzo, ma molto intelligente e un grande appassionato di calcio. Lui credeva tanto in me. Non voleva cedermi in Italia e aspettò la fine del mercato in Europa per mandarmi in Messico. Io ci rimasi male, ma quando sono andato via mi ha abbracciato e mi ha detto ‘Tu per me sei come un figlio’. Credo mi abbia apprezzato come ragazzo, mi consigliava quale macchina dovessi acquistare, in quale casa abitare, mi ha fatto studiare la chitarra ad Assemini e ricordo che rimase molto contento per come la suonassi. Ovviamente però non sempre lo ascoltavo e facevo di testa mia”.
Un rapporto quasi paterno, con tanti consigli ma anche alcune sgridate. “Una volta dopo aver cambiato tre allenatori ci venne a parlare negli spogliatoi e ci disse che dovevamo prenderci le nostre responsabilità. Quelle parole sono servite davvero, perché poi la squadra ha iniziato a fare punti per la rimonta salvezza”. Da Giampaolo a Pulga, passando per Allegri. Sono stati sei gli allenatori cambiati, ma se deve sceglierne uno…”Dico Allegri. Ricordo la sua vicinanza ai giocatori, usava sempre le parole giuste e nei momenti giusti. Sapeva tenere unito il gruppo”. In totale però nella sua carriera ne ha avuti 28. “Mohamed è stato il mio padre calcistico, poi ci metto Berizzo, Paco Jemez e il Tigre Gareca. Come per Allegri, i grandi allenatori prima devono essere grandi persone”.
A Cagliari solo nell’ultima stagione ha raggiunto la doppia cifra. Una consuetudine che invece ha caratterizzato le stagioni successive. “Non so cosa non abbia funzionato. Dal Messico in poi ho dato il meglio di me, con una media di 15 gol a campionato da ormai 6-7 anni”. Sei mesi all’Atlante e il ritorno in Europa, in Spagna tra Rayo Vallecano e Celta Vigo. Due salvezze consecutive e un gol storico al Camp Nou che fece il giro del mondo. “Meraviglioso, il mio primo gol in trasferta con il Celta. Segnare e vincere per la prima volta nella storia del club al Camp Nou contro il Barcellona di Luis Enrique e della MSN. Non so se è la rete più importante della mia carriera, ma è quella che si ricordano tutti”.
Larrivey adesso ha 36 anni, è concentrato sulla U de Chile ma inizia a pensare anche al futuro. “Sto seguendo il corso di Menotti per diventare allenatore, mi mancano 5-6 mesi”. Idee chiare, come uno dei principi fondamentali del ct campione del mondo con l’Argentina nel ’78. ‘A tutti piace vincere, ma dipende da come si vince’. Ci sono delle regole morali da rispettare. È un piacere ascoltarlo, perché è ancora lucido, nonostante l’età”. Probabilmente lo vedremo su una panchina, di sicuro lo rivedremo a Cagliari, ma senza rimpianti. “Non mi pento di nullla nella mia carriera, senza quegli sbagli non sarei diventato quello che sono. A mia moglie dico sempre che dobbiamo tornare in Sardegna, perché ci siamo conosciuti dopo e vorrei fargliela conoscere, ma purtroppo ancora non ci sono riuscito. Lo faremo sicuramente quando smetterò di giocare”. Parola del Bati.
di Mattia Zupo
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