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Data: 08/01/2019 -

Voce, vizi e felicità. Osvaldo in Italia da rockstar: “Libero da ipocrisie”

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Una carriera interrotta a trent'anni, un'altra iniziata nel 2016. Oggi Osvaldo è il frontman dei Barrio Viejo. Siamo stati a Paganica alla prima tappa del tour italiano. E dietro al palco, ci ha raccontato la sua vita.
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Una carriera interrotta a trent'anni, un'altra iniziata nel 2016. Oggi Osvaldo è il frontman dei Barrio Viejo. Siamo stati a Paganica alla prima tappa del tour italiano. E dietro al palco, ci ha raccontato la sua vita.
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L'ultima rovesciata: "Voglio vivere cose semplici"

Essere rock significa anche questo: potersi permettere licenze che il pallone ha soffocato. Libertà di “vivere le cose semplici. Quelle della gente normale, così lontana da quella nuvola patinata del mondo del pallone”.

Semplicità, parola d’ordine della sua prima tappa italiana. Ingresso unico, niente camerini o cordoni di sicurezza. Daniel entra insieme ai suoi nuovi compagni di squadra. Ha un look alla Jack Sparrow e il sorriso di chi ha trovato il tesoro. Per scaldarsi, al posto dello stretching, un goccio di whisky. Sorrisi sinceri alle prime file, qualche parola con la sua band e un giro di batteria come fischio d’inizio.

Repertorio blues, aria grunge e voce rock accompagnata – rigorosamente - da Bacco e tabacco. Alle sue spalle non ha trequartisti ma un gruppo di fantasisti argentini con bacchette e plettri. Fuori c’è la neve, proprio come 13 anni fa quando arrivò per la prima volta a Bergamo. Non l’aveva mai vista, gli venne da piangere. “Ci ho ripensato venendo qui. In quel gennaio del 2006 iniziavo una nuova vita. Adesso mi sento come il ragazzino che ero: tutto illusione e voglia di fare”.

C’è sempre la neve negli inizi di Pablo, un po’ come nei ricordi di Verdone in Manuale d’amore. Non ha un lenzuolo bianco sotto cui nascondersi, ma un fantasma da allontanare con le note. “So che mi avete conosciuto come calciatore, ma quello è il passato. Ora sono un cantante e vogliamo farvi divertire con la nostra musica”, è la sua invocazione dal palco.






All’inizio dell’altra carriera lo paragonavano a Batistuta. In questa il primo nome che viene in mente - un po’ per il look, un po’ per lo stile canoro - è Piero Pelù. Entrambi simboli di una Firenze che ancora ricorda la sua rovesciata di Torino. Era il maggio del 2008 e valse l’ingresso in Champions. Ne ha fatte altre, ovunque. Non a caso. La “bicicleta”, manifesto di una carriera vissuta sottosopra, emblema del Desòrden cantato nel singolo principale di Liberaciòn. “La mia vita è sempre stata disordinata. Nell’ambiente del calcio mi hanno sempre visto come un matto, ma non ho mai capito certe logiche. Non potere uscire dopo una sconfitta, suonare la chitarra o bere una cosa lontano da una partita. La dittatura del risultato è l’ipocrisia più grande: c’è chi ritiene Messi un fallito per non aver vinto un mondiale. Quelli sì che sono dei falliti”.

Vincere o perdere, nella musica, è un processo più lungo di 90 minuti. Perché l’intensità di un applauso è un gol da valutare nei download, lontano dal palco. Il rischio è non vendere, la speranza è piacere a un pubblico più vasto possibile. L’ossessione resta fuori dalla porta. “È un ambiente più tranquillo, c’è meno pressione ma non pensare che voglia cazzeggiare. Ho intrapreso questa nuova attività con professionalità e passione. M’ispiro a tanti e a nessuno. Amo i Rolling Stones e i Doors. Uno dei miei figli si chiama Morrison non a caso…”.


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