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Data: 19/04/2016 -

'BlackJack' Ratto, da Malta alle Fiji: "Io, italiano in Mongolia. Il freddo, l'Africa e lo spagnolo imparato grazie al Depor"

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Non puoi capire il freddo che fa qui”. E’ la prima cosa che Giacomo Ratto scrive su Whatsapp. La Mongolia lo ha accolto così, temperature che vanno dai -10 agli 0 gradi: “Però la stagione dei -25°C è finita eh”, tende a precisare. E pensare che fino al 16 marzo era in Zimbabwe, 35 gradi all’ombra. Un mese in Italia e poi via, il 12 aprile, verso Ulan Bator: “Città carina, non è male. Abbastanza moderna… A me poi piace la storia quindi voglio visitare anche i musei. Solo che ho fatto il primo allenamento e mi sono ammalato...”. Bronchite la diagnosi dell’ospedale, “scusa per la voce ma sono distrutto” confessa. Si sposta col taxi, “che costa pochissimo”, o con l’autista della società. Divide un appartamento con due russi, gli altri due stranieri dell’Ulaanbaatar City Football Club. “C’era pure un marocchino ma è andato via oggi”, racconta a GianlucaDiMarzio.com. Poi prende fiato e si tuffa nella sua storia. Unica, più che rara. “Come ti trovi?”, chiedo. “Bene dai, ci sono un po’ di cose da sistemare perché il club è nuovo. Ieri ad esempio sono andato a fare la spesa col team manager perché erano finite le scorte e non sapevo cosa prendere… C’è da stare attenti qua”. Portiere, vero? “Sì, però cerco di portar loro anche qualcos’altro. Adesso sto cercando di anticipare l’allenamento alle 16 perché alle 19 c’è troppo freddo, purtroppo il club non ha un campo di proprietà e dobbiamo affittare quello della Federazione. A livello professionistico siamo distanti anni luce da altre realtà”. Che lui conosce eccome, perché Giacomo Ratto - varesino di 30 anni - è un giramondo del pallone. Davvero. “Qui è simile alle Fiji, forse leggermente meglio. Lì c’era un allenatore incompetente e presuntuoso che ci faceva allenare soltanto con la partita…”. Ma come ci arriva un italiano in Mongolia? Ci sediamo, con calma. E BlackJack, come si chiama su Whatsapp, ci racconta la sua storia. “Stavo giocando nei dilettanti. Ho cominciato da piccolo in una squadra di Varese, il Bosto, che ha un buon settore giovanile. Poi sono andato nel Varese a livello professionistico, ma purtroppo non tutti poi arrivano. Nel 2012 ho litigato col Presidente della squadra di Promozione dove giocavo e siccome stavo facendo bene mi sono detto ‘proviamo all’estero Giacomo’ quasi un po’ per gioco”. E com’è andata? “Ho contattato Mario Muscat, l’ex portiere della Nazionale maltese che conoscevo. Gli ho mandato i miei video, il mio curriculum e mi ha contattato per andare a giocare là. Il calcio, e la vita, sono tutta una questione di coincidenze”. Ma il mappamondo non ha smesso di girare: Malta, Panama, Nicaragua… “Poi avevo già avuto un’offerta dalla Mongolia quando avevo rescisso in Nicaragua, avevo anche rifiutato un’offerta dalla Costa Rica ma poi una settimana prima di tornare in Italia mi dissero che la squadra mongola era stata esclusa dall’AFC Cup e quindi mi sono ritrovato a piedi”. Ma non senza speranze, perché Giacomo Ratto non si arrende mai: “Ho trovato l’occasione per giocare la Champions League asiatica, ma ho avuto sfiga”. Perché? “Ero andato alle Fiji, ma il club aveva sbagliato a chiedere il transfer per cui non è arrivato in tempo e non potevo giocare. Una parentesi buttata via”. E quindi… “il ritorno in Europa. Svizzera, col Taverne nella loro Serie D. Lì infortunio (strappo muscolare all’adduttore) e al giorno di paga non mi hanno pagato. Sai cosa ho fatto?”. No… “Li ho mandati a quel paese e sono andato via”. Chiaro e schietto. Non è ancora finita la sua pazza storia, perché lo contatta un agente portoghese. “Ti va di andare in Africa?”, chiese. “Io l’Africa la adoro, mi piace tantissimo ed era un qualcosa che avevo già in testa. Solo che devi stare molto attento a dove vai, a chi ti porta, etc. Mi mandano i biglietti per partire e prendo il volo. Dovevo incontrare l’agente a Dubai, ma non è venuto per altri impegni. E sono cominciati i problemi…”. Già, perché il giramondo Ratto ha sempre avuto vita difficile. La voce adesso gli cambia, si sente che la parentesi è dolorosa: “Avevano un portiere l’anno prima che era andato via con l’ok del team manager e del presidente, ma non dell’allenatore. E quando l’ho incontrato ho capito che aveva qualcosa contro di me: ho giocato un torneo a 4 squadre, anche piuttosto bene. Il procuratore arrivò il giorno prima della scadenza del visto (quello da 15 giorni te lo rinnovano là in Zimbabwe, ma quello da un mese è praticamente impossibile) e quindi l’allenatore ebbe tutto il tempo di fare i suoi comodi: convinse l’altro portiere a tornare ed il presidente a non farmi firmare il contratto. Ancora oggi mi scrivono i miei ex compagni per chiedermi di tornare… vuol dire che qualcosa di buono lo avevo fatto. E mi dà fastidio che abbiano scritto che non avevo passato il test, che non avevo impressionato. Tutte cavolate. La gente voleva me, voleva vedermi giocare. Andai col team manager una sera in pizzeria, viene il pizzaiuolo e mi dice che era venuto a vedermi e che si era divertito con le mie parate. Mi fece un piacere enorme… L’allenatore favorì il suo amico e mi fece andare via. Aggiungiamoci che c’era stato un caso di calcioscommesse con gli asiatici in cui l’aggancio era un italiano… avevano paura che mi vendessi le partite. E mi ha fatto male questa cosa”. Si volta pagina, perché adesso il presente si chiama Mongolia. Ulan Bator, Premier League. Come ci è arrivato? “Avevo contattato l’allenatore del Cape Town perché volevo andare là, in Sud Africa. Lui è venuto in Mongolia e mi ha fatto chiamare: è nato tutto così”. La vita? “Tosta, perché i compagni non parlano inglese e comunicare in allenamento è difficile. Non capiscono nulla, ed io parlo e aiuto molto in campo: dovremo trovare una soluzione”. Eppure Jack con le lingue se la cava anche bene: autodidatta di inglese, che a scuola (ragioneria) odiava. Francese? Non gli piace, ma la fidanzata - Chiara - fa la professoressa a scuola ed è rimasta in Italia per questo: “Ormai si è abituata anche al mio lavoro…”, ride. Altre lingue? “Lo spagnolo, da autodidatta anche questo. Leggendo AS e Marca, perché tifo Deportivo La Coruna”. Come? “Sì, una mattina mi svegliai presto perché dovevo andare a giocare a Bergamo contro l’Atalanta. Era il ’99, su TMC davano la replica di Depor-Betis. Facevano il calcio migliore di Europa e me ne innamorai…”. Mai banale, Jack. Neppure quando ci racconta come ha trovato tutte queste squadre in giro per il mondo: “In Nicaragua tramite l’agente che mi aveva portato anche l’offerta dal Costa Rica. Qui, come dicevo, da solo… A Panama avevo contattato l’allenatore dei portieri. Cerco di bussare più porte possibili, qualcuna prima o poi si aprirà”. E il calcio italiano? “Difficile seguirlo, qua si vede soprattutto tv russa. Simpatizzo il Torino perché mio nonno tifava granata ed è come un padre per me”. Continente preferito? “Africa, il più bello di tutti. Perché ti cambia a livello umano, è difficile da spiegare: tutti sorridono, anche se non hanno niente. E’ un’esperienza unica. Io poi cerco di portarmi dietro un pizzico di tutte le culture calcistiche e di vita quotidiana che incontro… Ogni posto vive ed interpreta il calcio in maniera diversa. E poi mi porto le magliette delle squadre dove ho giocato, è un ricordo che mi piace avere con me”. Quanto resti lì? “Sei mesi, voglio recuperare bene e poi… tornare in Africa”. E’ il sogno? “Sì, perché poi ti può dare un futuro in panchina”. E l’Italia? “Se mi chiamasse una Serie B ci andrei… ma a parità di condizioni continuerei a fare il giramondo”. Del pallone. Perché BlackJack è così: due pali, un pallone, i guanti ed un nuovo paese. E’ la sua ricetta della felicità.


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