C’è stato un tempo in cui Ciro Immobile se ne stava in disparte a bordo campo, col muso lungo e lo sguardo astioso, il giaccone tirato su e la bandierina tra le mani, triste e solo in mezzo alla polvere. Aveva 10 anni, giocava nella Salernitana e nessuno lo vedeva, tant’è che nelle liste per gli arbitri veniva indicato come “assistente di parte”. Guardalinee.
Davanti c’è un certo Luca Orlando, 25 gol in un anno, mentre Ciro se ne sta in un angolo aspettando un cenno dall’allenatore. Uno sguardo, un gesto, niente. Rimane in piedi incazzato nero, quasi in lacrime, pregustando la rivincita. Se l’è presa vent’anni dopo.
Immobile è il miglior marcatore della Lazio con 161 gol, in estate ha vinto l’Europeo, in bacheca c’è una Scarpa d’Oro storica vinta davanti a Messi, Ronaldo, Lewandowski. E tra le squadre ‘bucate’ si è aggiunta anche la Salernitana, battuta 3-0 all’Olimpico con l’ennesima puntura di “Re Ciro”, 10 gol in 11 partita in Serie A (di Pedro e Luis Alberto gli altri guizzi).
Conoscendolo non tirerà mai fuori i concetti di “rivincita”, “vendetta”, “livore”, perchéa alla il fallimento fa parte del percorso. Ciro l’ha sperimentato presto, come uno schiaffo. “Ci dispiace, non puoi più stare qui”. Scartato dai Giovanissimi della Salernitana a dieci anni.
Ciro fu scoperto da Enrico Coscia quand’era ancora uno dei pulcini della scuola calcio Maria Rosa di Salerno. “Questo è troppo forte”, pensa. Così lo porta alla Salernitana. Immobile gioca un anno sotto età con gli ‘89, non ingrana, e a fine stagione viene mandato via.
In granata continuano giusto 6-7 ragazzi. Nonostante il “no” prende da parte i genitori. “Voglio fare il calciatore”. Così mamma e papà lo portano a Sorrento. È il 2002, cinque anni dopo vince il campionato Allievi segnando 30 gol. Conteso da Samp e Juve, alla fine firma con i bianconeri. Il resto è storia laziale. Come lui, all’Olimpico, se parliamo di gol, nessuno mai.
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