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Il pugilato, il Liverpool, l’illusione: auguri Owen, l’antieroe inglese

Bum, bum, bum. Il brivido del pugilato. Incassi e colpisci, cadi e ti rialzi. Schivi. Hawarden Boxing Club, ricordi Michael? In principio fu la boxe per il ragazzo di Chester. In seguito il calcio. Poi i gol, Anfield e You’ll never walk alone. Su e giù in altalena. Come i colpi che incassava da bambino. Lì all’angolo, seduto, sullo sgabello. E spugna mai gettata. Neanche in campo, quando sulla maglia c’era scritto Owen e le ginocchia tremavano. The golden boy, l’illusione più bella del calcio inglese.

Ah, Michael. Quanto segnavi? Tantissimo, più di 260 reti in carriera. Ma tanti infortuni, dalla caviglia alle ginocchia (soprattutto ai tempi del Newcastle). Cadeva e si rialzava, appunto. Come gli aveva insegnato papà Terry: “Impara a combattere, non mollare” gli diceva, dandogli una pacca su quelle spalle così strette. Incoraggiandolo. E Owen, in silenzio, apprendeva sicuro. Si presentò ai Mondiali di Francia ’98 con una ventina di gol e il sorriso sincero. Fulminò tutti con un dribbling, lo scatto su Ayala e il gol della vita. Argentina senza parole, il mondo senza respiro. Predestinato, l’antieroe del calcio inglese. Quello che dopo le partite andava dal papà, a chiedergli com’era andata. Umile, semplice, un ragazzo come tanti con la “passione per i cavalli”. Ma prolifico e amato dai più, tant’è che il gruppo inglese The Businnes, dopo una sua tripletta alla Germania nel 2001, gli dedicò addirittura una canzone. Finita qui? No, perché la finale di FA Cup dello stesso anno contro l’Arsenal, vinta dal Liverpool grazie a una sua doppietta in 5 minuti, venne ribattezzata la “Michael Owen final”. Roba da bomber. Dicono che per essere un campione devi oltrepassare una linea immaginaria. A destra la gloria, a sinistra l’oblio. Nel mezzo c’è Michael Owen. Come lui nessuno mai, o pochi pochi. Mai veramente grande. Incompiuto, più che incompreso. Perché a 19 anni aveva già bruciato le tappe. Mistero intricato e complesso. Oggi ne fa 37 con un vagone di rimpianti. Doveva “portare equilibrio” in un’Inghilterra da salvare, “non lasciarla nelle tenebre”.

Oro di Liverpool, vince (quasi) tutto tra il 1996 e 2004 (sei trofei). Anche il Pallone d’Oro, uno dei più discussi della storia recente: “Un riconoscimento collettivo, senza i Reds non l’avrei mai vinto”. Poi il Real, il fallimento, i tentativi di rinascita col Newcastle e il canto del cigno col Man United. Mai perdonato dai “suoi” ex tifosi per la scelta dei Red Devils: once a Manc, never a red”. Ennesima, triste vicenda, di un talento esploso troppo in fretta. Da bambino frantumò il record di Ian Rush segnando 97 gol nel campionato scolastico del Galles. Precoce. Poi arrivò il Liverpool, la storia d’amore che tutti conosciamo. Anche se Michael, da piccolo, sosteneva l’Everton. I romantici del calcio fanno concludere lì la sua carriera. Impossibile ricordare Owen al di fuori di Anfield. Non si può. Il resto poco o nulla, timide punture di spillo. Tristezza, malinconia, tanta nostalgia. Qualche sorriso. Ripensando a chi, nella notte Mondiale di Saint-Etienne, gelò l’Argentina entrando nella storia con una maglia più grande di lui. Un’illusione, bella e rimpianta. Colpisci, incassi, schivi e ti rialzi. Auguri Michael. Proprio tu, che forse, dal calcio, hai incassato più di quanto dovevi. Rialzandoti sempre.

Francesco Pietrella

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