« E non fia per questo
che da codardo io cada: periremo,
ma gloriosi, e alle future genti
qualche gran successo porterà il mio nome. »
Così Ettore, fratello maggiore di Paride, si presenta al mondo prima dello scontro con Achille. Uno scontro in cui Troia, meravigliosa e fiorente città, antica quanto il mondo, è destinata a cadere per un inganno, ma da quelle ceneri, dalla fuga dopo anni d’assedio e tribolazioni, da uno dei suoi figli, Enea, nascerà l’impero più importante della storia dell’umanità.
Non che si voglia, qui, paragonare Antonio Donnarumma a Ettore, però molte parti di quell’opera omerica ricordano le moderne vicende pallonare. A Gigio la figura di Paride va solo un po’ stretta. E poi non gli renderebbe giustizia. Paride fu rovinato da una bellissima donna e da qualche lite olimpica. Continuando nei parallelismi Elena diventerebbe Mino e Zeus sarebbe un Tavecchio qualunque. La cosa, francamente, non sembra proponibile, anche se al vertice le liti si sprecano, come allora. Senza contare che Troia, in questo caso, si presterebbe a interpretazioni che non le renderebbero giustizia. Forse, volendo continuare nel solco dei miti greci, si potrebbe modernizzare il Minotauro, scindendo le parole, come carte a un tavolo di Black Jack, ma la storia non si ripete quasi mai tale e quale, a volte mischia le carte e si trucca di nuovi colori. Il fratello grande non è più à-la-page, sostituito dal Grande Fratello. E non ci sono più scheletri, oggi si sta molto meglio, negli armadi.
C’è una dinastia, quella dei Donnarumma, che si fa largo a forza di colpi di scena, nel teatro calcistico nostrano. E che, manco fossimo stati catapultati da Omero a Virgilio e da Virgilio al Manzoni, su una palla di cannone di munchauseniana memoria, sembra essere pedina di Provvidenze hollywoodiane, frutto di sceneggiature da thriller, quasi fantascientifiche. Mentre scendeva sul prato verde intitolato a un interista, con attorno un parco intitolato a un interista, su una collinetta intitolata a un Santo di cui non è dato conoscere la fede calcistica, sotto al fuoco di fila dei malevoli sguardi bipartisan, il grande fratello Antonio si tappava le orecchie e si dava coraggio. E la partita lo avvolse. Un vecchio leone ruggiva sulla linea del fallo laterale, compagni e avversari a rincorrersi e il pubblico, in preda alla digestione natalizia, a urlare ferocemente sugli spalti. Ritmo. Velocità. Rumore. Paura. Colori. Ricordi. Polemiche. Coraggio. Pressioni psicologiche, qui sì, mostruose! E poi, in un attimo, la catarsi. Un pallone arriva viscido dal fondo, il buon Antonio, tutto bagnato di pioggia e di sudore, prova a intervenire, ma il destino beffardo lo punisce e lo manda in fondo al sacco. Sembra finita. Da lì in poi la psicologia giocherà, e questa volta veramente, un ruolo determinante. L’Inter dilagherà, il Milan si affloscerà, come un panettone scavato. La critica aggredirà ferocemente la preda, e tutti a darsi colpe e a indicare negli uni e negli altri la causa di questo effetto difettoso! E qui interviene l’imprevedibilità tipica di una sceneggiatura attuale. Arriva la favola, la ranocchia, con la R maiuscola, però. Anziché farsi baciare per trasformarsi in principe, si frappone provvidamente tra palla e portiere. Var! Fuorigioco. Ma var-da te! Quel che poteva essere abisso diventa punto di forza, e la storia viene stravolta. La Provvidenza ha cambiato il corso delle cose e alla Provvidenza, si sa, piacciono i miracoli. E così João Mário si presenta con le armi di Achille di fronte a Ettorantoniodonnarumma, pronto a trafiggerlo. Ma non è Achille, è Patroclo Naval da Costa Eduardo. E il fratellone, aiutato dagli dei, fa il miracolo che svolta tutto. Adesso non importa cosa succederà, il finale è scontato, quasi un doveroso orpello.
Da uno stadio incastonato su quella collina, come il deposito di Paperon de’ Paperoni, esce un canto di Natale tutto nuovo e attuale. Esce un uomo che era stato definito raccomandato, parassita, buffone, come eroe romantico contemporaneo, bello di fama e di avventura, perché la s-ventura è stata esonerata poco tempo fa. E si sente bene, tutti lo abbracciano, anche quel piccolo grande fratello, gigioneggiante. Per questo amiamo il calcio, perché per quanto uno si sforzi di far sempre apparire tutto e tutti come mostri avidi e mercenari, come squallido e avvilente teatrino, questo sport regala sogni e emozioni, e non ha niente, ma proprio niente, da invidiare agli antichi poemi. Milioni di persone hanno urlato e gioito e pianto di fronte a quelle gesta, forse meno nobili, ma così attuali e importanti. E non le hanno compiute eroi da leggenda, ma semplici uomini moderni, con delle ambizioni, delle paure e delle speranze. Forse è il caso di pensarci su quando si spara a alzo zero su qualcuno solo perché ha uno stipendio a molti zeri. Perché quello stipendio non è casuale, nessuno regala mai niente. E i cinesi, che oggi sono in viaggio, come Enea, dalle ceneri di Troia alle speranze d’una Roma imperiale, men che meno. Solo un consiglio, molto natalizio, ci sentiamo di dare ai protagonisti: cercate non tanto il successo, quanto il lieto fine, perché è questo che il pubblico di oggi si aspetta. E che si dica sempre di voi, come Dickens fece dire di Scrooge, che non c’è uomo al mondo che sappia così bene parare a Natale. E così, il dio del calcio ci protegga tutti e ci benedica.
Andrea Bricchi (@andreabricchi77).
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