Valentino Mazzola si rimbocca le maniche della sua maglietta granata. È il segnale per la squadra. Inizia il quarto d’ora granata. Dal mito alla quotidianità. Quel gesto così semplice è l’atto fondativo del Grande Torino e simbolo di una fede. Un tifoso granata cresce con quell’idea in testa e lo applica con devozione. Tutti possono essere Valentino Mazzola, tutti vogliono essere Valentino Mazzola. In un campo da calcio, a scuola o in un ufficio non cambia. Il concetto è lo stesso. Non è qualcosa di fisico. È il segnale che dai a te stesso, così come faceva Mazzola con i suoi compagni.
Sono passati 72 anni dalla tragedia di Superga, eppure ogni 4 maggio la storia è la stessa. Il mondo si ferma, si toglie il cappello e commemora il Grande Torino. Il ricordo è sempre fresco, non invecchia mai. Soltanto alcuni luoghi sacri di quella squadra sembrano patire lo scorrere del tempo. Il bar Vittoria, quello di Gabetto e Ossola, non c’è più e del vecchio stadio Filadelfia sono rimasti solamente dei gradoni.
Ma il Grande Torino non è invecchiato. La sua memoria continua a vivere in “chi in essi crede”. Da due anni i tifosi non possono salire sul colle per commemorare quella squadra, che per il mondo granata è la Squadra. Ma in qualche modo ci sono sempre. Certo, le immagini del colle stracolmo di gente, della salita che porta alla basilica piena di persone di ogni età in pellegrinaggio e del silenzio profondo al momento della lettura dei nomi dei Caduti sono un’altra cosa. Immagini che fanno venire i brividi. Questa era la normalità prima del covid. Ma come è possibile?
Gli Invincibili sono stati simbolo di un’Italia che voleva ripartire dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale. Una squadra contro ogni difficoltà e consapevole del ruolo sociale che ricopriva. All’epoca incontrare Mazzola per le strade di Torino non era impossibile e allo stesso tempo era facile che quei giocatori aiutassero le persone in difficoltà.
A capo di tutti c’era Ferruccio Novo, il presidente del Grande Torino. A lui di richieste di aiuto ne arrivavano di continuo. Si segnava tutto. C’era chi chiedeva un lavoro, chi aiuti economici o chi voleva solamente un biglietto per vedere una partita. Agenda e penna in mano, nome, cognome e richiesta segnati.
Il Grande Torino era amato anche per questo. Senza tutto ciò non sarebbe mai stato Grande, ma solamente Torino. Lo stesso epilogo di quella squadra è arrivato per tendere la mano a chi era in difficoltà. Era il 3 maggio, il Toro era a Lisbona per mantenere una promessa. Francisco Ferreira aveva chiesto a Mazzola di aiutarlo. Era in difficoltà economica e stava per lasciare il calcio. Da lì l’idea. Benfica contro Torino, partita amichevole. Tutti a Lisbona sarebbero corsi per vedere il Toro. E così fu. I granata lasciarono vincere i portoghesi 4-3 e poi tornarono a casa, dove non arrivarono mai. Da Lisbona presero la strada che li portò nel mito. Lo schianto di Superga è il finale triste che in una favola non c’è mai.
C’è chi piange, chi stringe il figlio memore di quando gli raccontava la storia del Grande Torino e chi sogna di poter leggere quei nomi un giorno. Poi l’applauso e tutti urlano “Campioni!”. Oggi Superga è deserta, non ci sono bambini sognanti o anziani memori di quel periodo. Sono tutti a casa a guardare la basilica dal loro balcone. Il ricordo del Grande Torino, però, c’è sempre. Fa parte del paesaggio. Fa parte della vita.
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