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Gigirriva, storia di un uomo diventato isola

Se n’è andato in una serata di gennaio, nella sua Cagliari. Fredda, anche se mai quanto a Leggiuno, altrettanto “sua”. Gigirriva, detto tutto d’un fiato. Rombo di Tuono.

“Bandiera”, sì, ma sarebbe riduttivo: Riva era l’immagine del calcio italiano, il più grande bomber azzurro di sempre. Ha fatto la storia rimanendo quel bambino che si arrampicava sugli alberi vicino al lago Maggiore, l’orfano che mangiava dalla scodella nella mensa del collegio. 

Gigi Riva, storia di un uomo diventato isola

Luigi Riva. Un nome così comune, banale, per un uomo unico. Il simbolo di una terra, la Sardegna, che si riconosceva in un’immagine di cui finalmente andare fieri. Il calcio per l’isola è stato il modo di uscire dal guscio della storia, per diventare Italia. L’isola è stata per Gigi lo specchio dei suoi pensieri: di più, della sua anima. Onesto, schivo, taciturno: sardo lo era sempre stato, ma lo seppe solo nel 1963. Da Milano a Cagliari, con quell’aereo che sorvolava il nulla e quelle parole, sibilate: “Torno indietro”. E invece cambiò idea. 

“La Sardegna allora era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione”, diceva Gianni Mura. Eppure grazie a Riva si scoprì anche terra di calcio. L’Amsicora lo acclamava, e lui si trasformava in Amsicora, il condottiero sardo che guidò una rivolta antiromana nel terzo secolo. Cambiavano solo gli avversari: quelli di Gigi si chiamavano Inter, Milan, Juventus. 

Sì, la Juventus. Riva seppe dirle di no, rifiutò quel “miliardo” diventato proverbiale. Cagliari sarebbe stata per sempre casa sua. Il quartiere di San Benedetto, il mare, il ristorante di pesce divenuto meta di culto in vita. Luoghi semplici, essenziali. Ora l’amico di sempre Giacomo, della Stella Marina di Montecristo, non riesce a parlare dall’emozione. 

In nazionale Riva segna 35 gol: ancora oggi un primato imbattuto. Sembra quasi un incantesimo, un tabù. Con l’Italia vinse all’Olimpico l’Europeo del ’68, il primo della nostra storia. Eppure l’azzurro per lui era stato prima di tutto una maledizione, col terribile infortunio proprio a Roma contro il Portogallo. Della nazionale fu anche team manager. Resta impresso quel brusco distacco dal resto della delegazione, nel 2006, poco prima di entrare al Circo Massimo. Riva vide che la politica saliva sul carro dei vincitori, e decise di scendere.

Poi la scuola calcio, quella di Barella. Il cinquantesimo dello scudetto del ’70, il film. Cera, Niccolai, Albertosi: compagni che si strinsero intorno all’amico Nenè, fino all’ultimo giorno. L’abbraccio con Buffon. Chissà cosa si sono detti, sussurrati, giurati. Davanti al mondo ma in fondo soli. Condividevano l’esperienza della depressione, entrambi hanno scelto di raccontarla.

Gigi faceva ormai fatica a uscire, da quella sua casa, nonostante gli amici di sempre continuassero a incoraggiarlo. Al ricordo del passato e di quella stagione magnifica gli si disegnava un solco lungo il viso, come cantava De Andrè. Un amico, al pari di quel Piero Marras che scrisse: “Quando Gigi Riva tornerà“. 

Sì, quando? Intanto se n’è andato in silenzio, senza disturbare troppo. C’era da aspettarselo, da lui. Per questo l’addio è stato più fragoroso. Come un rombo di tuono. Ma col tempo lascerà il posto a una dolce e sottile brezza. Quando Gigi Riva tornerà.

 

Andrea Monforte

Classe 2000, monzese (d’adozione), studio Lettere a Milano. Un’indomita ed ereditaria passione per lo sport (calcio, ovviamente, ma anche ciclismo), declinata in “narrazione” tecnica e sentimentale: la critica della complessità come antidoto alla semplificazione. La vaghezza del ricordo personale ha reso l’azzurro del cielo di Berlino 2006 un’indelebile traccia mitologica. Sono nato lo stesso giorno di Ryan Giggs e di Manuel Lazzari, ma resto umile.

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