Cercasi chiavetta usb: “Mi serve per rivedere la partita”. Il primo pensiero, dopo il K-way: “Qual è il mio? Vabbè, prendo quello col 25…”. Non col 21, strano. Il suo Anzio ha perso male: “4-1 col Bisceglie, partitaccia”. E niente alibi: “Si sta in silenzio e si lavora“. Gentile però, disponibilissimo. “Mettiamoci nello spogliatoio“. Caffè e sigarettina: “Quella elettronica eh, anche se prima fumavo”. Già da calciatore, ma nessuno se ne accorgeva: “Ho sempre dato tutto, non ho mai guardato i soldi”. Questione di valori: “Prima il rispetto, poi il resto”. Un tipo concreto Gaetano D’Agostino. “Ma chi, quello che stava per firmare col Real?!”. Proprio lui, oggi allenatore dell’Anzio in Serie D. Idee chiare: “In campo sono maniacale, curo il dettaglio e i giocatori, ma nello spogliatoio devono gestirsi loro, devono saper creare una famiglia. Nasce tutto lì”. Parla l’esperienza: “Gli racconto sempre un aneddoto vissuto ai tempi della Roma…”, svela D’Agostino in esclusiva su Gianlucadimarzio.com: “Io, Lanzaro, Amelia e un altro paio di ragazzi arrivavamo al campo
mezz’ora prima, prendevamo tutti palloni. Poi li gonfiavamo e facevamo
un po’ di tecnica individuale con Galbiati, il vice di Capello. Infine
ci allenavamo con la squadra, ma alla fine dovevamo riprendere i
palloni, pulirli, sciacquarli e rimetterli dentro la sacca. Ogni giorno.
Se sgarravamo, erano fatti nostri. Lo facevano per farci capire come si stava in uno spogliatoio”. Ora D’Agostino non gioca più, allena. Fame, ambizione e determinazione: “Ringrazio la famiglia Rizzaro, non è da tutti allenare in D a 34 anni”. Dal campo, alla panchina. Cambiano i ritmi e la mentalità: “Devi imparare ad entrare nella testa di 25 ragazzi, è
un po’ stressante ma l’ho sempre voluto fare”. Merito di qualche modello: “Capello, Marino, Spalletti e Sarri”. Motivazioni differenti. “Partiamo da Capello”. Vai:
“Il numero uno nella gestione del gruppo, con lui ho esordito in Serie
A. Sergente di ferro con la mentalità vincente, era uno che aveva una
lettura meravigliosa a partita in corso. Sapeva essere sia duro, che
morbido. Un grande campione”. Poi Marino: “Uno zemaniano, l’ho avuto all’Udinese e sono stati tra gli anni migliori di sempre”. Infine, Sarri e Spalletti: “Il primo è più metodico, il secondo sa anche variare”. D’Agostino invece? Che tipo è? “Voglio crescere, perfezionarmi. E per capire dove sbaglio mi riguardo tutte le gare”. Tutte lì, in quella chiavetta chiesta a inizio allenamento.
Ci sono le partite, c’è la sconfitta col Bisceglie. C’è il futuro. E i
ricordi da calciatore. Alcuni belli, altri no. Alcuni da rivivere col
sorriso, altri da storcere il naso tenendo gli occhi bassi. Storie di vita. Gaetano D’Agostino si racconta dalla A alla Z ai nostri
microfoni. Un viaggio, il suo. Let’s go.
Gli inizi nella “sua” Palermo: “Ho sempre voluto fare il calciatore, sempre. Non ho visto altri lavori al di fuori di questo. Ero un po’ cicciottello da piccolo, mi chiamavano Bombolino”. Bomber però, questo conta: “Giocavo
in attacco e segnavo milioni di gol, nel Palermo arrivai a 100. E in un
solo anno eh, tiravo forte e spaccavo le porticine. Cadevano e mi
divertivo”. Idolo? “Van Basten!”. Scandito forte e chiaro. “Poi Zidane, perché sono passato a centrocampo”. Sorrisi e battute, fino alla Roma: “Esordii nell’anno dello Scudetto (2000/01, Brescia-Roma 2-4 ndr), in quella stagione c’erano dei campioni
incredibili. Lo spogliatoio era fantastico, almeno due giocatori forti
per ruolo. Infine Totti, che dire? Ho imparato veramente tanto”. Prima Capello, poi l’anno dei quattro allenatori. Qualche problema: “Qualche?
Un caos! E’ stato uno dei momenti più bui della storia della Roma. Con
Capello avevo giocato 16 partite da protagonista, poi mi ritrovai in un
inferno. All’inizio c’era Prandelli, con lui mi trovavo benissimo. Poi
se ne andò, circolano ancora varie leggende a riguardo. Si dice per
Cassano, la moglie, tante cose. Arrivò Voller e non ti dico…”. Curiosità da raccontare: “Eravamo tutti in cerchio. Ci disse che si era assunto questa responsabilità soltanto per rispetto della Roma, che se fosse stato per lui non sarebbe neanche venuto!”. Con Delneri le cose non vanno meglio: “Mi fece passare i guai. Giocavo come quinto esterno a
centrocampo, non avevo nulla a che fare con quel ruolo. Una volta
marcai Zenoni, dopo 3′ rimediai un giallo. Allora lo guardai e gli dissi che alla prossima l’avrei buttato giù. Correvano
troppo. Giocai in mezzo giusto un paio di partite, la stampa mi diede 7
ma scelsi di andare a Messina…”. Bene per 2 anni, un mese anche con Ventura: “Un maestro di calcio, ho sempre avuto un bel rapporto”. Infine arriviamo a Udine. Qualche tiro alla sigaretta, un sorso di caffè. E si comincia: “Il
nostro segreto era l’ossatura italiana, sono stati 4 anni in crescendo
(dal 2006 al 2010 ndr). Prima utilizzavamo il 3-4-3, poi il 4-3-3. Europa, Coppa Uefa, tanti talenti. Ogni anno ne arrivava
uno”. Lista lunga: “Quagliarella, Asamoah Gyan, Handanovic, Pepe, Sanchez. Infine Totò, una bandiera amata da tutti”. Simbolo:
“Non è mai voluto andare via, ogni anno aveva richieste. Era
legatissimo alla città, un ambiente che ti lasciava lavorare. Ma Totò
era unico, faceva cose che in altre piazze non avrebbe potuto fare, una
sorta di Totti”. Retroscena di mercato: “Una
volta arrivò una squadra straniera, per rispetto non vi dico qual è.
Offriva un contratto milionario. Ma Totò non ci pensò due volte
e rifiutò, non so chi altro l’avrebbe fatto…”. Chapeau, come gli 11 gol di D’Agostino nel 2009, il mancino che infilava punizioni: “Quello contro la Lazio uno dei più belli! Fu una grande stagione, croce e delizia di tutta la mia carriera…”.
Sorride,
conosce già la prossima domanda. Si prepara, beve l’ultimo sorso di
caffè e poi racconta. Juventus, Real Madrid, Napoli. Tutto d’un fiato: “Il mio ex avvocato conserva ancora la copia del precontratto, pure i biglietti dell’aereo. Meglio che non li veda”. Prima la Juve però, come andò realmente? “Oltre
ai soldi, l’Udinese voleva anche Giovinco e De Ceglie. Ci rimasi molto
male, tutt’ora sono convinto che se ci fosse stato Marotta io sarei
andato a Torino, ma all’epoca c’era Secco. Fu un duro colpo, ormai il
mio trasferimento era diventato il tormentone dell’estate, non andai
neanche in vacanza. Ero a Lignano Sabbiadoro, avrei potuto firmare ogni
giorno e avevo sempre il telefono in mano, poi saltò tutto e la Juve
prese Felipe Melo a 25 milioni. Uno che col mio ruolo non c’entrava
nulla. Se avessero preso Pirlo ok, anche Xabi Alonso. Ma Melo, boh. Non capisco. Xabi invece sì, infatti andò al Real al posto mio…”. Respiro profondo e via, D’Agostino (ri)parte in quarta: “Mi
chiamò Ernesto Bronzetti, l’intermediario. Ricordo che stavo giocando
alla play e non ci stavo con la testa, l’ipotesi Juve era appena
sfumata. Sigaretta in bocca, joystick in mano, vidi un numero strano e risposi. Mi disse chi era, che cosa vuole propormi. Pensai a uno scherzo e riattaccai subito”. Non l’avesse mai fatto: “Mi richiamò dopo un minuto, era proprio lui! Buttai il joystick, la sigaretta mi cascò sulla maglietta e ne accesi subito un’altra, avevo un’ansia tremenda. Poi all’improvviso mi chiese se fossi sposato, io gli risposi
di si. Lui replicò dicendomi che era una buona cosa, Madrid era una
città tentatrice. In quel momento pensai nuovamente ad uno scherzo, ma
durò un secondo…”. Bronzetti aveva tutto:
“Aereo in partenza, contratto da 2 milioni a salire, mi disse di
aspettare perché in serata sarebbero venuti a prendermi a casa, era sicuro che avrei firmato col Real. Allora riattaccai e chiamai mia moglie, non ci stavo capendo più nulla”. E poi? “Credimi,
te lo dico davvero. Da lì in poi, non so più niente. Plusvalenza,
giocatori in cambio. Sono circolate mille storie, ma tutt’oggi non so
ancora com’è andata”.
Treno che parte e non ritorna, morale a terra: “In
3 mesi ho perso la Juve, il Real e… il Napoli! Era tutto fatto,
mancava soltanto il mio sì, purtroppo finì in mezzo alle due trattative e
rifiutai. Resta il rimpianto più grande della mia carriera”. Il giro del mercato in 90 giorni, D’Agostino resta all’Udinese e ne risente: “Non
c’ero mentalmente, segnai giusto un gol. Feci tre partite alla grande e
a febbraio mi ruppi il ginocchio, non entrai neanche nei 30 convocati
per il Mondiale in Sud Africa. E fu un trauma, perché sono sempre stato
orgoglioso di vestire la maglia della Nazionale”. Emozione uniche: “Ricordo
il gruppo di Lippi, c’erano tanti campioni con un senso d’appartenenza
devastante. Umili poi. Pirlo e Gattuso erano il gatto e la volpe,
Cannavaro un carismatico, Lippi un fenomeno. Ecco,
è lì che mi sono sentito davvero un calciatore, uno dei 23 più forti d’Italia, il vice-Pirlo della Serie A. E’ brutto da dire, ma è così. Ho imparato tantissimo, ho collezionato 6 presenze e poi più nulla, sono uscito dal giro causa infortuni. Quei giorni, però, rimangono unici”. Come quelle trattative di mercato: “Dissero che avevo pagato questa delusione a livello psicologico, ma è
normale dai! Persi tutto in poco tempo, sono cose che ti segnano”.
Dopo Udine qualche anno difficile: “Andai
a Firenze ma il ciclo era finito, avevano toccato il massimo con
Prandelli e quei successi erano difficilmente ripetibili. Conservo un
bel ricordo a livello di singoli, c’erano Ljaic, Gilardino, Mutu, anche
Mihajlovic come allenatore. Ma lo spogliatoio era piatto, forse il più
brutto della mia carriera, infatti disputammo un campionato mediocre”. Tappa a Siena, tra gioie e malumori: “Ambiente
tranquillo, ma pesante. Il primo anno ci salvammo grazie a un grande
Mattia Destro, poi è successo il casino con la Montepaschi. E iI tifosi
mi facevano pesare il fatto che vivessi a Firenze”. A Pescara l’ultimo anno di Serie A: “Sono
stati sei mesi difficili, c’erano talenti straordinari come Perin,
Quintero, Weiss. Ma troppo inesperti, difficile salvarsi con un gruppo
così”. Un po’ come ad Andria: “Stavo benissimo, poi sono andato a Benevento perché non c’era un progetto, mi hanno dato del mercenario ma la società non sapeva fare calcio”. A 30 anni qualche offerta: “Potevo
andare in Giappone, Felix Magath mi voleva all’FC Tokyo. Poi presero un
altro allenatore e rimasi in Italia, sarebbe stata una bella esperienza. Mi sarebbe piaciuto andare a Dubai, o in America, ma non c’è mai stato niente di concreto. Alla fine ho chiuso con la Lupa Roma”. Il caffè è finito, come l’intervista. I suoi ragazzi lo aspettano per la solita riunione. Occhio però, bisogna portare i conetti, le attrezzature. “Ci penso io”. Lui, D’Agostino. Quello che alla Roma portava i palloni per “imparare a stare al mondo”. Quello che ha perso il treno Juve, il Real e pure il Napoli: “Una piazza simile meritava un sì”. Quello che ha incassato, ma ha guardato avanti. Calandosi in una realtà come Anzio con l’umiltà di sempre. Senza rimpianti, solo ricordi. Tanti. Conservati in una chiavetta speciale che ogni tanto si rivede.
Arthur, centrocampista della Juventus (Imago) Il centrocampista brasiliano potrebbe trasferirsi al Real Betis Il Real…
Antonio Silva proverà a forzare con il Benfica per trasferirsi alla Juventus nella finestra di…
Jeremy Le Douaron - Imago Le Douaron decisivo nel match contro il Bari: per il…
Il classe 2003 decisivo nella vittoria degli emiliani al Città del Tricolore "Prego, sedetevi comodi.…
La squadra ligure pareggia agguanta l'1-1 contro la formazione di Possanzini grazie alla rete dell'attaccante. …
Tre vittorie nelle ultime cinque partite per il Frosinone di Leandro Greco, che torna a…