Kuwait in lingua araba è “la fortezza costruita sul litorale”. Non è un caso che laggiù siano sempre stati abituati a guardare al di là del Golfo Persico, dove si affacciano le tre torri della capitale, alte 183 metri. Mario Fontanella, però, non si è mai fatto spaventare dall’altezza: a Napoli ha iniziato a dare calci al pallone da quando era solo uno scricciolo rispetto ai grattacieli del Centro direzionale di Poggioreale. “È il complesso residenziale dove sono nato, pieno di torri ma anche di spazi aperti. Perfetto per crescere e praticare sport”. E ora che è arrivato a giocare in Kuwait, dove è stato il primo italiano a vincere la Division One con l’Al Yarmouk e diventare il capocannoniere con 13 gol, inizia anche a sentirne la nostalgia. “Appena finisco la stagione torno dalla mia famiglia. Per me non esistono vacanze, nei due mesi di stop mi basta essere lì”.
Sono ormai nove stagioni che Mario ha deciso di salutare i genitori da luglio a maggio per diventare un giramondo e cambiare un po’ tutto della sua vita: case, libri, auto, viaggi e i fogli dei diversi contratti firmati in questi anni. Prima a Malta con Floriana e Valletta, 116 gol in 7 campionati, poi la prima esperienza in Medio Oriente nel Bahrain, al Muharraq: “In questi Paesi il presidente non lo vedi mai, di solito è un emiro o un personaggio importante. L’ho incontrato solo una volta perché venne a vedere un derby, per fortuna feci doppietta”. Si parla dello sceicco Ahmed ibn Ali Al-Khalifa, spesso confuso con un omonimo: il re Hamad bin Isa, passato alla storia da quelle parti per aver concesso il diritto di voto alle donne, o più conosciuto in Occidente per essere stato l’uomo che ospitò Michael Jackson dopo il suo autoesilio dagli Stati Uniti.
L’arrivederci di Mario all’Europa è nato da una vacanza, anche se non era la sua. “Uno dei dirigenti dell’Al Muharraq si trovò a guardare una partita a Malta. Nella finale del campionato segnai il gol decisivo. Era il 2019, da quel momento mi ha mandato offerte ogni anno. Le ho sempre rifiutate perché vivevo bene lì, ma dopo due anni il Valletta ha dovuto vendermi per problemi di debiti e ho iniziato una nuova fase della mia vita”. Anche la percezione delle cose è dovuta man mano cambiare: “In Bahrain mi guardavano male anche per i tatuaggi. Qui non ho avuto questi problemi, sono più aperti di come si pensa in Occidente. Forse è l’effetto Arabia Saudita, infatti lì ho rifiutato delle offerte”.
Fontanella ha 34 anni e si definisce “forse troppo competitivo”, eppure in Kuwait deve fare i conti con un campionato a cinque squadre, dove ogni club si incontra quattro volte in una stagione. “Per certi versi è pesante, soprattutto sul piano psicologico. Poi qui non giochi per tutto il periodo del ramadan, nelle pause nazionali devi stare fermo un mese. Rischi di tornare e fare cinque partite in poco tempo”. Per fortuna può compensare con gli allenamenti: “I club sono delle polisportive e hanno strutture pazzesche. Palestra, piscina, tre campi in erba, poi incontri ogni giorno i giocatori di pallavolo, basket o futsal”.
Finita la sessione, c’è chi esce dagli spogliatoi col borsone e l’abito da lavoro: “La maggior parte dei calciatori non fa questo di professione. In Kuwait tanti sono banchieri, ma alcuni quando firmano il contratto col club è come se facessero accordi col governo, quindi hanno dei permessi speciali per giocare e basta, prendendo due stipendi”. Un modo di vivere il calcio quasi adolescenziale, tanto da ricalcare la passione italiana per lo sfottò. “L’anno scorso in Bahrain il mio allenatore era del Milan e col Napoli che vinceva sempre io lo massacravo, era bellissimo”. Poi, in Kuwait, il contrappasso: “All’Al Yarmouk ho trovato un compagno che tifa Inter. Ogni weekend mi dice ‘oggi perdete’ e puntualmente ha ragione. Forse per questo non è andata bene quest’anno”.
Per una vita in giro tra Serie D e Lega Pro lo hanno chiamato “Super Mario”: doveva arrivare in Kuwait per cambiare soprannome. “Qui li danno in base al nome del papà, ma io non ho mai detto a nessuno come si chiamasse il mio. Poi ho iniziato a sentire dei cori in cui gridavano ‘Pedro, Pedro, Pedro’ e ho capito fosse rivolto a me, perché mio padre si chiama Pietro. Ormai sono Mario Pedro, anche se non ho capito come abbiano fatto a scoprirlo”. Un’altra impronta delle sue origini napoletane: “Lui è felicissimo, io ormai esulto indicando il mio nome e pensando alla mia famiglia”. Forse non sono solo le tre torri di Kuwait City a dargli quel senso di nostalgia.
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