Felipe
Anderson è un po’ come Will Hunting. E se avete visto il film sapete già la trama. Teoricamente ha tutto. Talento,
potenzialità, quel piglio un po’ retrò dell’ala pura, imprendibile. Luci e
ombre da “bello e dannato”. Perché poi è devastante solo quando vuole, spesso incostante, a tratti anche
svogliato. Da schiaffi. O da applausi come stasera, contro la Steaua, lampi e
strappi di Pipe.
Prima salta tutti e rifila una rabona da “wow” d’obbligo,
poi sforna due assist al solito Immobile per
la tripletta. Ora è il primo italiano a segnare un hat-trick in Europa League
(superato Inzaghino per numero di gol siglati con la Lazio, 57 a 55). Cappelli
giù. E Felipe top: oggi ha rincorso l’avversario, è tornato in difesa, ha
dribblato, segnato, è stato protagonista del 5-1 della sua Lazio alla Steaua. Ottavi conquistati. Quarto
gol stagionale poi, il primo dopo la lite con Inzaghi e la pace ritrovata. Il
mea culpa.
Non più l’ombra di sé stesso, non più la faccia da schiaffi. Sorrisi
e abbracci ora, quello con Inzaghi è da polaroid. Fotografia
di una Lazio ancora brillante. Genio ribelle, Will brasiliano. E Simone come
Robin Williams tra l’altro. Un prof. Buono, buonissimo, ma non fatelo arrabbiare. Guai a
farlo, vero Felipe? Ora ha capito: meno alzate di testa, più visione di
insieme. E finalmente. Perché negli ultimi anni abbiamo avuto un’immagine
offuscata del suo style of play, distorta. Quella di un ragazzo a cui hanno dato un’equazione da
risolvere. Di quelle ermetiche a cui neanche il professore viene a capo. Pipe l’ha decifrata in pochi passi ma si è adagiato sugli allori, cullato
da quel talento di cui ogni tanto è prigioniero. Stavolta no, ha capito la
lezione, ha sacrificato il proprio io sull’altare dell’insieme. PS: l’Inzaghismo militante. Ha
ascoltato, capito, abbassato la testa. Dribblato la ribellione tattica sul ruolo, eluso l’indifferenza
di chi ha fatto fatica a comprenderlo. Infine, col tempo e i rimproveri, col lavoro e il sacrificio un tempo sconosciuto, trasformato i malumori in standing ovation. E abbracci sinceri. Come quelli tra Matt Damon e Robin Williams su una panchina di Boston. Come quello tra Felipe Anderson e Inzaghi sul prato dell’Olimpico.
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