Credit: L.R.Vicenza
La passione per il calcio nata in un quartiere della “sua” Torino, il sogno bianconero, la malattia dei genitori e i sacrifici fatti: la lettera di Fausto Rossi a Consapevolezze.
La sua storia parte tra le strade della sua Torino. “La famiglia e il calcio mi hanno salvato”. Il pallone lo tiene lontano dai pericoli del quartiere. Lui preferisce seguire quel pallone che a 5 lo porta alla Juventus, la sua squadra del cuore.
Anni in bianconero, con un allenamento che gli cambia la vita. Una domenica mattina, l’unica volta in cui il papà aveva deciso di accompagnarlo. Davanti a quel campetto ci passa spesso: “E ricordo tutta la mia storia”.
Una storia fatta di sacrifici e responsabilità. L’esordio in prima squadra mai arrivato perché “probabilmente non ero pronto”, la malattia dei genitori quando aveva solo 22 anni, un grave infortunio e l’idea di smettere, la morte di mamma e papà a un anno e mezzo di distanza. “Ma sono rimasto in piedi”.
Quella di Fausto Rossi è una storia costruita sul lavoro e sulla maturità di un ragazzo che è dovuto diventare uomo presto. La storia di un ragazzo e del suo pallone.
La ricordo quella domenica. La ricordo bene. In qualche modo mi ha cambiato la carriera. E dentro quel momento si racchiudono i significati e le storie di una vita. La mia vita. La vita di Fausto Rossi.
Nel settore giovanile della Juve ero entrato a 5 anni. Durante il primo anno di Allievi non giocavo molto. Avevo la sensazione che potessero mandarmi via a fine stagione. Non ero stato convocato per un torneo in Francia e mi avevano mandato ad allenarmi con quelli più grandi. Dopo quell’allenamento l’allenatore Storgato, che mi avrebbe avuto l’anno successivo, ha deciso di tenermi. Ed è andata bene. Fiducia, rendimento alto, libertà di essere me stesso. Grazie a quel giorno.
Ma quel giorno è importante anche per un altro motivo. È stata l’unica volta che mio padre mi ha accompagnato a un allenamento. In settimana lavorava, i weekend preferiva delle passeggiate in montagna per staccare. Quella domenica, invece, aveva deciso di portarmi. Un viaggio in silenzio. Lui era così. Uomo d’altri tempi. Averlo alla rete a osservarmi era strano. Bello, ma strano.
Io da quel campo ora ci passo quasi sempre quando sono a Torino. Ora è di proprietà del Toro. Ci si allenano le giovanili granata. Proprio la squadra di cui papà era tifoso. Anni dopo io sono diventato un calciatore. Sono diventato genitore e accompagno i miei figli agli allenamenti. Anni dopo i miei genitori sono morti. Si erano ammalati a pochi mesi di distanza. E a pochi mesi di distanza se ne sono andati. E quando ripasso davanti a quel campetto, ripenso a tutto questo.
Erano due persone diverse mamma e papà. Per carattere, età, modi. Ma grazie a loro sono l’uomo che sono oggi. Grazie a loro sono riuscito a stare lontano dalla strada e dai suoi pericoli, diventare un calciatore e un uomo con dei valori importanti. Quei valori che cerco di trasmettere ai miei due bambini. Senso del lavoro e del sacrificio, rispetto, il vivere di emozioni positive. Perché, alla fine, io vivo di quelle. E così vivrò. Fino alla fine.
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