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Era inevitabile, sir Bobby: Rooney è leggenda, 250 volte nel segno della storia

Doveva andare così, sir Bobby. Prima o poi doveva accadere. Certamente, sotto quel velo d’eleganza che l’ha accompagnata per tutta la carriera da giocatore e poi da dirigente e ambasciatore del Manchester United nel mondo, un filo di malinconia le avrà avvolto l’animo. Segno dei tempi che passano, segno del calcio che cambia e a una velocità quasi insostenibile si porta via con sé numeri, nomi, esperienze, leggende, storie irripetibili. Leggende, appunto. Su di lei, sir Bobby, nessuno ha dubbi. E’ come un marchio, un destino viscerale di cui nessuno, o forse tutti, sono a conoscenza. Nel suo caso, una certezza, fin da quel 1953, quando a 15 firmò il suo primo contratto da professionista con il Manchester United grazie a quello straordinario uomo di calcio che era sir Matt Busby. Vent’anni, 758 presenze, 249 gol, il Pallone d’Oro (e il Mondiale con l’Inghilterra) nel 1966, i 9 titoli con i Red Devils, compresa la Champions League di quel mitico 1968, l’anno della finale con il Benfica di Eusebio, l’anno in cui, con Law e Best, aveva conquistato il mondo, nel ricordo dei compagni volati a tifare in cielo dopo la strage di Monaco di Baviera di dieci anni prima. Con classe, purezza calcistica, amore per la maglia del Manchester United e per tutto quello che essa rappresentava e rappresenta tutt’oggi. Sotto quel velo d’eleganza, un sospiro, sulla sua poltroncina al Britannia Stadium, le avrà riempito il petto.

Perché ieri la storia è andata avanti, ieri la leggenda, la sua e quella del Manchester United, hanno vissuto un capitolo tutto nuovo, atteso da tempo. Inevitabile. Wayne Rooney l’ha superata in quella classifica che sembrava intoccabile. Quel ragazzo di Liverpool (i casi della vita) ha toccato quota 250. Uno in più di sir Bobby Charlton. Già da questo si può capire il peso che la partita di ieri contro lo Stoke City ha avuto nella storia del calcio inglese. “He’s made history”, “Build to him a monument”, “History breaker”, “Record man”. L’Inghilterra si è inchinata, ovunque c’è Wayne, ovunque ammirazione. E come potrebbe essere altrimenti. Oggi sono tutti per Wayne. In 546 partite, ha saputo rivoltare le gerarchie. Stringere la mano a sir Bobby e con un sorriso chiedergli di concedergli il trono. Diciassette titoli (5 titoli in Premier League, 1 FA Cup, 3 Coppa di Lega, 6 Community Shield, la Champions League e il Mondiale per Club nel 2008), una storia lunga quasi 13 anni e destinata a continuare ancora. Nel 2004 sir Alex Ferguson (non proprio uno qualunque) era rimasto folgorato da quel ragazzo di 17 anni che con l’Everton già incantava. Era andato contro le critiche che gli piovevano addosso e pur di portarlo all’Old Trafford aveva sborsato 39 milioni di euro. Hanno litigato spesso, se ne sono dette di tutti i colori, ma non hanno mai smesso di amarsi.

La storia di Rooney con il Manchester United non è stata sempre semplice. Nel 2010 aveva dichiarato di volersene andare, magari al Manchester City, che pareva pronto a offrirgli somme incredibili pur di strapparlo ai cugini e farne il nuovo simbolo. Ci ha ripensato, anche sotto minaccia, e non se n’è pentito. Mai. Sono passati Ferguson, Moyes, Giggs, van Gaal. Ora c’è Josè Mourinho, uno che a Manchester ha tutte le intenzioni di lasciare il suo segno indelebile. Lui, però, è sempre lì. E, dopo essersi preso la vetta della classifica marcatori dell’Inghilterra, ha battuto sir Bobby Charlton anche con la maglia dei Reds Devils.

Doveva andare così, sir Bobby. Era inevitabile. E’ il segno del tempo e del calcio che cambiano e che eleggono nuovi re, nuovi idoli. Nel ricordo di quei ragazzi del ’58, delle sue imprese, è giusto che la storia vada avanti. Una stretta di mano, passo libero per il trono. He’s made history. Sarebbe bello vedere una statua di Wayne vicina alla sua, fuori Old Trafford. Due immortali in un unico luogo, in un unico tempo. Magia.

Redazione

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