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Coco: “Roma, batti il Barça 3-0 come nel 2002. Il calcio italiano è fermo al Mondiale del ’94: una volta la Spagna eravamo noi”

E’ stato il primo italiano ad indossare la maglia del Barcellona, e proprio in blaugrana nel 2002 subì un nettissimo 3-0 dalla Roma all’Olimpico. Francesco Coco rivive quella partita e in un’intervista alla Gazzetta dello Sport prova a spiegare il momento poco felice del calcio italiano: “Un 3-0 come nel 2002? Complicatissimo: devono essere perfetti, e non dev’essere il Barcellona. Conterebbe anche solo vincerla: ma devono crederci tutti, Olimpico compreso. Peccato però: al Camp Nou c’era un rigore enorme e comunque, senza quell’autogol sfigato, il primo tempo magari sarebbe finito 0-0 e poi chissà. Peccato, quel 4-1 è bugiardo: negli ultimi anni ho visto poche squadre attaccare e giocarsela a livello tecnico così, con il Barcellona. Messi? Quando ero al Barcellona aveva 14 anni, da lì a poco il Como lo avrebbe scartato perché troppo piccolo. Lo pensai di Inisesta quando si aggregò a noi per la prima volta: ‘Che magro, ce la farà?’. Leo una settimana fa era irriconoscibile: pensava a quella rovesciata di Ronaldo. Si pensano a vicenda da dieci anni quei due: uno nato così, l’altro costruito per diventare così. Rapporto con il Barcellona? Con club, città e tifosi ho un rapporto quasi surreale: appena un anno lì, ne sono passati 16 e resta un legame vero, forte. Rijkaard? Certo che tutto nasce da lui, non da Guardiola: Pep ha esaltato il suo lavoro, ma la data di nascita del Barcellona di oggi è la Champions 2006. E siccome Frank è un figlio di Sacchi e uno più uno fa sempre due, lui ha portato il Barcellona nel futuro come Arrigo aveva portato nel futuro il calcio”.

Proprio da Sacchi parte Coco per provare a spiegare il perché il calcio italiano non riesca ad essere più vincente come un tempo: “Un giorno chiesero a Sacchi ‘Se aveste vinto il Mondiale ’94, oggi il calcio italiano sarebbe diverso?’. Lui rispose di no e invece dico sì: lo perdemmo e non si coltivò più il seme del cambiamento di Arrigo. Noi siamo rimasti uguali, gli altri sono cresciuti: quella sconfitta fu un passo indietro di dieci anni e il nostro calcio è fermo da trenta. Fermo venti metri di campo indietro: anche la Juve, in Italia così forte che ogni anno dovrebbe vincere lo scudetto a +20 e poi in Europa soffre pure con l’Olympiacos, mica solo con il Madrid. Il Mondiale del 2006 lo abbiamo vinto con i grandi calciatori, non con il grande calcio. Gattuso? Lo chiamavo ‘il mio fratellino’. Sa cosa gli dicevo sempre? ‘che bello che sei’. Mica perché è bello fisicamente, eh? Lui è bello dentro: persona vera che si mostra per quello che è. Sta costruendo una squadra a sua immagine e somiglianza: per buttarla giù ce ne vuole. Se ho rimpianti? Sul mio profilo whtsapp ho scritto ‘una vita da giocare d’azzardo’ perché avere una sfida davanti mi ha sempre aiutato a sentirmi vivo. Una volta sì, forse giocavo d’azzardo, oggi è un azzardo calcolato. Oggi non ho rimpianti per tutto quello che ho fatto. Molte cose erano sbagliate? Pazienza, sono quelle che mi hanno insegnato di più. Sa qual è il mio unico rimpianto? L’operazione alla schiena, che mi cambiò la carriera ma mi insegnò cosa significa soffrire e rialzarsi: è la vita, doveva andare così”.

L’intervista completa sulla Gazzetta dello Sport in edicola oggi.

Redazione

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