Uno dei suoi segreti è Max Nagorski, che non è un calciatore e neanche il suo match analyst. Max Nagorski è il traduttore di Fonseca da tre anni, la seconda ‘voce del coro’ nata a Portimao, in Portogallo, a 5000km da una guerra che costringe lo Shakhtar ad allenarsi a Kiev. Max traduce tutto, dalle sessioni tattiche alle conferenze, ma non è facile: “Deve trasmettere le mie emozioni. Se sono contento dei miei deve dirlo in un certo modo, idem se sono arrabbiato”.
Max lo accompagna ovunque e lo farà anche a Roma, la prossima tappa di un allenatore ambizioso e travolgente, anche nelle dichiarazioni: “Vincere non mi basta, amo farlo giocando bene”. Il suo Shakhtar l’ha fatto per tre anni, ha vinto 3 campionati, altrettante Coppe d’Ucraina e una Supercoppa, isolando i rivali della Dinamo Kiev. Quelli che non allenerebbe mai: “Altrimenti mia moglie si arrabbia”.
I due si sono sposati un anno fa sul lago di Como, forse l’Italia era destino, come la Roma: nel 2017 ha rischiato di farla fuori dalla Champions andando a vincere in casa per 2-1. Ma al ritorno Di Francesco strappa l’1-0 e passa ai quarti: “La Roma è stata cinica”.
Paulo parlò così, tradotto da Max, accanto a lui anche dopo la vittoria contro il City per 2-1, in sala stampa, quando Fonseca si presentò con la maschera di Zorro per tenere fede a una promessa fatta a un giornalista ucraino: “Se andiamo agli ottavi di Champions vengo vestito così”. Oggi è la prima ‘scusa’ per ricordarsi di lui.
Max era presente anche in settimana, in campo o in sala video, quando Paulo ha provato 20 volte lo stesso schema convinto di poter battere Guardiola: “Dovete crederci, dovete fidarvi”. Così è stato, Shakhtar agli ottavi e Fonseca sotto i riflettori, tant’è che una tv portoghese ha deciso di documentare quei giorni insieme a lui con un bel reportage. Il suo credo, il suo calcio, i suoi dogmi e la sua filosofia: giocare bene.
Fonseca ammira Guardiola, stima Sarri e qualcuno l’ha paragonato anche a Mourinho, ma lui ha sempre dribblato il confronto: “E’ un allenatore dell’altro mondo, magari un giorno mi piacerebbe essere come lui. Ma Mou è Mou”. Paulo è un tipo pacato, elegante, tranquillo.
Lo era da calciatore ed è rimasto così da allenatore, anche se all’inizio non immaginava un futuro in panchina: “Non era nella sua testa”. Meglio giocare. Lo raccontano i suoi ex compagni di Barreiro, la città in cui è cresciuto e dove gli U2, nel 2004, registrarono il video di un loro album diventato storia: “How to Dismantle an Atomic Bomb?”.
Paulo Fonseca si è formato in Portogallo ma è nato in Mozambico, a Nampula, città di anacardi e poco calcio, colonia lusitana fino al '75.
A 14 anni si trasferisce a Barreiro e da casa sua vede Lisbona, sogna il grande salto ma resta fedele al club della sua città: “Un vicino mi portava a vedere le partite dello Sporting, ma il mio cuore era al 100% Barreirense”. È rimasto tale ancora oggi, a 46 anni.
Nel 2005 smette di giocare, fa un po’ di gavetta e sei anni dopo è già in seconda divisione con l’Aves, paesino di 8mila abitanti. Arriva terzo e sfiora la promozione, ma l’impresa è solo rimandata: nel 2013, con il Pacos de Ferreira, finisce ancora terzo e arriva in Champions League. Il miglior risultato del club in 60 anni di storia, e i cronisti iniziano a chiedergli quali sono i suoi segreti.
Il primo è la leadership: “Il modo in cui un allenatore risolve le cose fa la differenza. Dirigere influisce positivamente sui comportamenti, chi lavora con me sa che de essere parte attiva in questo processo”. L’altro è il bel gioco. Offensivo, ordinato, un 4-2-3-1 con trequartisti tecnici e bravi a inserirsi, terzini alti e centrali di impostazione: “Studio e mi preparo”. Analisi video e lezioni in aula ai giocatori, come se fossero a scuola.
L’uomo di fiducia è Tiago Leal, ‘gli occhi di Paulo’, un ragazzo cresciuto con il Porto di Mourinho e Football Manager, scoperto da Fonseca mentre commentava Stati Uniti-Portogallo nel 2014: “Guardò un mio video per caso e pensò che avevamo le stesse idee. Aveva appena firmato per il Pacos de Ferreira, mi convocò nel suo studio e parlammo due ore”.
Da quel giorno è sempre stato accanto a lui. Prima al Porto, dove viene esonerato dopo 21 gare: “Il mio gioco non era adatto ai giocatori che c’erano”. Poi al Braga, dove vince la Coppa di Portogallo nel 2016 e arriva ai quarti di Europa League, impressionando tutti per il gioco ragionato.
Infine lo Shakhtar, il cerchio che si chiude, tre anni fantastici con 7 trofei. 8 sconfitte in 94 partite di campionato. E una guerra destinata a graffiare ulteriormente i volti stanchi degli ucraini, come Kovalenko, Pyatov o Stepanenko, suoi fedelissimi: “Sarà difficile tornare a Donetsk, alleno lo Shakhtar e non ci sono mai stato, è triste. Lo stadio ha subito lievi danni e viene utilizzato dal nostro presidente come luogo di ristoro in città, alimenta un sacco di gente”.
Lo Shakhtar si allena a Kiev e gioca a Kharkiv, a 300km da Donetsk: “Facciamo migliaia di voli, spostamenti, viaggi, per i giocatori è peggio”.
Ma lui ha saputo tirar fuori orgoglio e qualità, valorizzando talenti come Marlos, Taison, Dentinho, Fred (oggi allo United), Facundo Ferreyra (Benfica) e soprattutto Ismaily, terzino-fantasista, il giustiziere del City a casa-Shakhtar nel 2017.
Quella maschera sfoggiata dopo la vittoria contro il City è un elogio a chi ci crede, oltre la promessa: “Da bambino ero povero, e per chi è così il costume di Zorro è il più semplice da creare a Carnevale”. Dietro la maschera c’è di più e l’abbiamo capito, davanti si intravede la Roma, e accanto a lui ci sarà sempre Max Nagorski.
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