Fabio Borini, Salford (Imago)
Un periodo complicato passato prima di ritrovare il sorriso, nella “sua” Inghilterra: Fabio Borini si è raccontato a gianlucadimarzio.com
Un 2025 complicato, fatto di delusioni sportive e di ostacoli resi insuperabili da fattori esterni, ma che da un momento all’altro – attraverso forza di volontà e voglia di rimettersi in discussione – si è trasformato nell’anno della rinascita. “Sto molto bene, perché ho ripreso ad allenarmi, a giocare e a rivivere le emozioni delle partite. Non devo pensare ad altro che ai matchday, e questo mi fa stare bene”: parola di Fabio Borini, uno ormai abituato a ritrovarsi in situazioni di difficoltà e a uscirne sempre con il sorriso.
Sorriso che da poco più di un mese ha ritrovato nella sua amata Inghilterra, più che una seconda casa, dove è tornato per giocare con l’ambizioso Salford. Stando a contatto con lui, due sono le cose che colpiscono a primo impatto: l’amore per il Regno Unito, terra che lo ha accolto quando era di fatto ancora un bambino, e la battuta sempre pronta. Sintomo della serenità di chi ne ha viste di ogni, ed è abituato ormai a prendere tutto con una risata. “Qui al Salford mi trovo bene, a parte le mattinate di traffico. Ho trovato un gruppo di ragazzi propositivo e un club che ha l’ambizione di essere promosso. A portarmi qui è stata la nostalgia del calcio vero”, racconta a gianlucadimarzio.com.
Calcio nella sua essenza: stadi obsoleti ma sempre sold out, manti erbosi condizioni proibitive e partite dal sapore storico; questo è bastato per riaccendere la scintilla in Fabio: “Cercavo quelle sensazioni che potessero scaldarmi il cuore. Ho preferito fare una scelta che potessi reputare più mia rispetto ad altre che mi avrebbero semplicemente allungato la carriera senza un reale divertimento. Questa esperienza la vivo in maniera diversa, i compagni mi guardano con ammirazione visto il mio passato in Premier, e a me piace mettermi a disposizione di una società che punta a diventare un club da Championship. Far parte di un percorso del genere mi dà molti stimoli”.
Un’avventura certamente inedita, ma non per questo meno entusiasmante, e nata quasi per caso: “Avendo passato l’estate da svincolato ho fatto il camp con l’associazione calciatori inglese, che offriva un servizio per i calciatori senza contratto. Finito quello Alex Bruce, il vice allenatore, mi ha mandato un messaggio proponendomi di allenarmi con il Salford. Ho risposto affermativamente, specificando però che il mio obiettivo non era convincere necessariamente qualcuno”.
Ma il Salford non è un club come gli altri. La presenza in città di due colossi come Manchester City e Manchester United ha sempre lasciato nell’ombra gli Ammie, almeno fino all’acquisizione della società da parte della Class of ’92 rappresentata da Scholes, Giggs e i fratelli Neville, a cui qualche anno più tardi si è aggiunto Beckham: “Il club ha investito in maniera coerente con la storia del quartiere, che è tra i più poveri di Manchester. Ha un approccio molto moderno e umile con i tifosi, facendoli sentire come se fossero loro i veri proprietari” – racconta – “Scholes viene parecchie volte al centro sportivo, vedo spesso anche Giggs. I tifosi sono contenti di loro, da una società costruita con persone che hanno fatto calcio puoi solo aspettarti decisioni funzionali al risultato sportivo”.
Un’esperienza diversa rispetto a quelle precedenti, a cui Borini si è proiettato con grande umiltà e spirito di sacrificio. Caratteristiche che lo hanno contraddistinto nel corso della sua carriera, senza le quali non avrebbe potuto realizzare il sogno di diventare un calciatore professionista.
“A soli 16 anni mi sono ritrovato al Chelsea. Dovevo firmare con il Bologna, ma visto che il club di volta in volta posticipava mi hanno contattato i Blues. Ho accettato di corsa e fatto le valigie, intraprendendo il primo passo verso quello che poteva essere un sogno e si è trasformato in uno stile di vita. A Londra non puoi trovarti male, io ho anche il Big Ben tatuato, come raffigurazione della mia maturità: lì sono passato da ragazzo ad adulto, mi sono evoluto”. Un primo passo che gli ha dato tanto soprattutto a livello mentale: “I trofei vinti coi Blues non li ho sentiti miei avendo giocato poco, ma sono riuscito a rendere mia la mentalità che c’era dentro lo spogliatoio. Ho percepito cosa vuol dire avere una mentalità vincente: non ci sono giorni off da quella”.
E sempre in Inghilterra Fabio ha vissuto altre due esperienze tra tanti alti e pochi bassi, segnate però in qualche modo dalla sfortuna: “Al Liverpool ho subìto due infortuni gravi, che mi hanno fatto crescere dal punto di vista della resilienza perché volevo spaccare il mondo e non potevo”. Ci ha pensato il Sunderland, poi, a farlo riemergere: “Io e il club ci siamo incontrati in un percorso calcistico ideale, avevamo bisogno l’uno dell’altro. Il legame è ancora forte e continuerà a lungo a esserlo, perché i miei gol sono stati importanti e i tifosi mi ricordano con affetto”.
Da quel momento in poi si susseguono diversi momenti e tappe che lo mettono alla prova: “Al Milan è andata come mi aspettavo, non dovevo brillare e ho fatto di tutto pur di indossare quella maglia, e questo è stato riconosciuto dai tifosi. Al Karagumruk è stato diverso, perché ho massimizzato ciò che potevo fare pensando a segnare più gol possibili per rimettermi in mostra. Sapevo che quell’esperienza avrebbe potuto ridarmi visibilità”. Ed è andata proprio così: addirittura 36 gol segnati che gli hanno permesso di tornare in Italia, dove ad attenderlo c’era la Sampdoria. Tappa indimenticabile, nel bene e nel male.
“L’idea è nata perché la Samp non è un club da Serie B. Io nelle difficoltà mi ci ritrovo, mi piace la sfida e prendere in mano certe situazioni. Nel secondo anno, però, è cambiato un po’ tutto in negativo per me e per il club. Quello che mi hanno fatto l’ho vissuto male per forza di cose, è come quando a un bambino viene tolto il giocattolo preferito: come può reagire? La società non ne voleva sentire, ho parlato con tutti tranne che con quelli che hanno preso la decisione, dovevo prenderne atto senza poter fare nulla. Ero pronto a fare causa, non c’era nessun motivo per avermi messo fuori rosa e non mi è mai stato spiegato il perché”.
Una piccola parentesi negativa di una lunga carriera in cui il classe ’91 è sempre riuscito a lasciare il segno e a farsi apprezzare dai propri tifosi, ma nella quale non sono mancati i momenti difficili a livello personale: “Il più complicato sicuramente è stato quello post Verona, durante il periodo del Covid, perché in pochi mesi mi sono ritrovato dal giocare nel Milan a essere svincolato e non si sapeva quale sarebbe stato il destino delle società visto il momento di crisi. Non sapevo dove sbattere la testa. E poi anche l’ultimo anno, ovviamente, è stato molto tribolato”.
Guardandosi indietro, però, ci sono anche diversi attimi rimasti scolpiti nella mentre del 34enne: “Giocare per la Nazionale non può essere messo fuori dal podio. Più grande di questo, forse, ci sono le due partite disputate a Wembley. Prima con lo Swansea, quando abbiamo ottenuto la promozione in Premier e ho capito che avrei potuto fare il calciatore. Poi quando ho segnato con il Sunderland: fare gol in quello stadio non è una cosa normale”. Chissà che la vita non possa regalare a Fabio un nuovo viaggio a Wembley. La rincorsa parte da lontano, da quel Salford che gli ha ridato il sorriso dopo mesi complicati.
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