“Sono lacrime di gioia, ve lo giuro: è stato il giorno più bello della mia vita”. 19 anni, la voce mossa dall’emozione di una finale appena conclusa e parole che lasciano un segno. Per la semplicità con cui sono state dette, per il significato nascosto, per una nuova prospettiva portata. L’intervista di Benedetta Pilato è stata per certi versi sorprendente. Ha suscitato stupore. Come si fa a essere contenti per una medaglia solo sfiorata per un centesimo? Questione di prospettiva. La nuotatrice ne ha offerta una nuova e diversa, scardinando un’impostazione mentale e sociale radicata: l’opposizione tra successo e fallimento. Il primo è di pochi, il secondo di tutti gli altri. Quello che c’è dietro conta poco.
Un tema che contiene in sé tante sfumature: l’ambizione, la salute mentale, l’importanza del percorso o del risultato. Un tema con cui lo sport e gli sportivi sono chiamati a confrontarsi ogni giorno. Com’è successo nel celebre discorso di Giannis Antetokounmpo, nella parabola di Simone Biles, nella depressione di Iniesta e nelle parole di Ancelotti, Klopp e Guardiola. E nella spontaneità propria di una giovane nuotatrice, forse è possibile trovare un’alternativa.
Fino a dove deve arrivare la competizione? Cos’è il successo? Conta il risultato o il percorso? Temi trasversali che attraversano l’etica e l’essenza dello sport e, forse, della società. Sulla questione si espresse lo scorso anno Giannis Antetokounmpo dopo la sconfitta di Milwaukee nei playoff NBA. “Ci sono giornate buone e giornate cattive. Ci sono giornate in cui si vince e altre in cui vincono gli avversari, ma tutto è un passo verso un altro successo, perché nello sport c’è sempre un altro passo da fare”. Ed ecco che quel fallimento assume un’accezione semantica diversa. Non una fine, ma una possibilità. A far la differenza è anche il modo in cui le cose vengono raccontate e vissute. Perché le dinamiche culturali che influenzano carriere e le narrative che ne vengono fatte. Come nel caso di Simone Biles. Una storia di una corsa alla perfezione prima, lo stop per l’eccessiva pressione e un blocco mentale, la rinascita e la capacità di accertarsi come vulnerabile.
Un percorso verso la normalizzazione. La normalizzazione della sconfitta come possibile alternativa al cannibalismo del risultato. “Nello sport, nelle nostre vite, a volte fai tutto il possibile, e non hai successo. Che male c’è?“, la riflessione di Pep Guardiola dopo l’eliminazione del suo City contro il Real Madrid. “Lo sport è questo, se ci provi non fallisci”. Pensieri e approccio ripresi da Ancelotti nel commento alle parole di Giannis: “Il fallimento è quando non provi a fare qualcosa nel miglior modo possibile. Quando cerchi di fare del tuo meglio hai la coscienza a posto e questo non è mai un fallimento, non solo nello sport ma nella vita”. Cambi di prospettiva. Come quella offerta da Klopp nella sua lettera a The Players’ Tribune: “Penso che il 98% del calcio abbia a che fare con il fallimento. Anche se tutti guardano ai protagonisti del calcio come degli dei, la verità è che tutti falliamo. Conta essere ancora in grado di sorridere e trovare gioia nel gioco il giorno dopo”.
A Benedetta sono bastati pochi minuti per sorridere. “È stato il giorno più bello della mia vita”. Nelle sue parole, così spontanee e naturali, la nuotatrice ha offerto un’alternativa diversa da quel binomio successo/fallimento. Essere contenti per ciò che si ha. Cosa ben diversa dell’accontentarsi. È piuttosto una consapevolezza di chi si è e del dove si vuole andare. È un apprezzare il viaggio fatto, per l’arrivo conta ma fino a un certo punto. E perché, forse, riuscire a godersi questi momenti è la chiave per quel successo. Dipende dai punti di vista. Non esiste una sola vittoria. Basta cambiare prospettiva. Ecco perché si può essere contenti di un quarto posto.
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