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L’azienda Roma e Daniele De Rossi

Uno spartiacque tra la Roma e i suoi tifosi. La conferenza stampa d’addio di Daniele De Rossi dalla maglia giallorossa ha segnato in maniera indelebile la linea di demarcazione tra una certa visione del calcio e il suo opposto. Lo ha spiegato molto chiaramente il CEO Guido Fienga con una sola parola, ripetuta quattro volte in una sola frase: “L’azienda Roma”. Non il club, non la società. Ma l’organismo composto di persone e beni, diretto al raggiungimento di un fine economico. “L’azienda Roma  ha deciso di non rinnovare il contratto a Daniele De Rossi”. Una scelta consapevole “non essendoci più le basi tecniche” per impostare una conferma. 

Scelta legittima, chi fa impresa deve sempre tenere in considerazione la sostenibilità di un investimento. Rispondere costantemente ad un’analisi costi benefici per valutarne la fattibilità. E in quest’ottica è stato deciso di portare a conclusione un contratto in scadenza nel giugno del 2019. Grazie di tutto, arrivederci. Legittimo, nulla da dire. Lo stesso dipendente dell’azienda ha accettato la decisione, perché “così funziona”. 

Peccato che il calcio sia tanto altro. Il business del pallone pone le sue basi su un numero illimitato di variabili intangibili e crea valore proprio sfruttando l’astrattezza delle stesse. Si chiama calcio, si declina come passione, amore, sentimento, appartenenza, orgoglio, rispetto, esempio, gratitudine, legame e chi più ne ha più ne metta. Incognite alle quali non si può dare un prezzo, che non sono un costo, difficilmente delimitabili all'interno di un’analisi numerica. Peró possono essere sfruttate per creare valore.

Ad esempio, qual è ancora oggi la maglia più venduta della Roma? Quella di Francesco Totti. Dietro di lui Daniele De Rossi. Il primo oggi fa il dirigente, il secondo il 30 giugno prossimo non vestirà più il giallorosso. Il resto? Componenti di una squadra che gioca sotto lo stemma della Roma. Il merchandising è una voce importante nel conto economico di un’azienda, la maglia è identità, appartenenza, orgoglio. Due parti che si alimentano tra loro e formano il giusto compromesso tra cuore, testa e sostenibilità aziendale.

Variabili sentimentali sviluppate in una piazza che ha imparato sulla propria pelle che il fine ultimo, la vittoria, non è la normalità. A Roma si perde, si fallisce, si sbaglia tanto più del suo contrario. E sono l’identità, l’appartenenza, i valori che bilanciano tutto. Si può cambiare, certo, si deve cambiare. Per crescere e migliorare, per vincere e guadagnare. Ma forse non sradicando certe radici, alimentando l’intangibile per raggiungere il tangibile, semplicemente modellando la propria strategia. 

Perchè con un rinnovo di contratto a Daniele De Rossi è sembrato meno traumatico l’addio di Francesco Totti. L’orgoglio e il coraggio dimostrati di fronte ad una sconfitta hanno cancellato la delusione di una semifinale di Champions. Cessioni dolorose e acquisti esosi perdonati grazie allo stupore di fronte ad un diamante grezzo con la maglia numero 22. O più semplicemente una corsa sotto la Curva, una vena più gonfia, una scivolata in recupero a volte sono valsi più dei tre punti. Perchè basterebbe non perdere di vista il fine ultimo di questo sport: il cuore della gente. 

Ma lo stop forzato all’ultima bandiera di un calcio valoriale ha delineato il punto di partenza di due segmenti contrapposti: l’azienda Roma e i suoi tifosi. Non si è voluto trovare un compromesso tra il conto economico e il cuore. Si è maldestramente accantonato definitivamente l’unico collante di un decennio di non vittorie: l’essere romanisti. Si chiamano scelte strategiche, figli di “errori evidenti commessi nel passato”. L’età avanzata, gli infortuni, uno stipendio importante. Variabili valutate e considerate non compatibili con la conferma di Daniele De Rossi come calciatore. Per lui e per tutto il resto non sembra esserci più spazio nell’azienda Roma.

Marco Juric

Aspirante scriba, si avvicina al calcio giocato grazie alla chioma fluente di Giovanni Cervone. Folgorato dalla prima autobiografia di Roy Keane, non si innamora del Manchester United, ma del Nottingham Forest. Dopo i primi trent’anni di osservazione partecipante, ha deciso di passare gli altri trenta che gli rimangono a scriverne.

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