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Albertini: “Al Camp Nou sarà un altro Barcellona, ma la Juventus non è il PSG”

Barca-Juve, ci siamo. E’ la vigilia del big match dei quarti di Champions e in tanti si chiedono se i blaugrana saranno in grado di regalare una nuova “remuntada” storica. Al partito degli scettici si iscrive anche Demetrio Albertini.

“Al Camp Nou sarà un altro Barcellona ­ in casa lo è sempre ­ ma gli spagnoli sono i primi a pensare che la Juventus non sarà un altro Psg” – si legge nelle pagine de La Gazzetta dello Sport – “L’hanno visto: ha tirato fuori il coraggio della grande squadra, ha saputo cogliere l’importanza di dare una dimostrazione di forza. Allegri è stato bravo: ha scelto di andare ad attaccarli sul campo dove erano più deboli e io Higuain non l’avevo mai visto correre così. Non è finita, certo, ma ora la chiave diventa l’atteggiamento. Anzitutto nella preparazione della partita, perché poi in campo la lettura sarà semplice. Con loro se attacchi o ti difendi hai le stesse chance: meglio provarci, per quanto te lo consentiranno”.

Punizioni: “Specialità della casa, ma non a Barcellona. Semmai quando ero all’Atletico, nel 2003: al Bernabeu il mio 2­-2 a tempo scaduto lo ricordano ancora. Al Barça no, le tirava tutte Ronaldinho: come oggi Messi, quando non ne lascia qualcuna a Neymar. Le mie punizioni però le usarono per i video che il club faceva per i ragazzi. “Buona la prima” il giorno delle riprese: subito una botta all’incrocio e via il pensiero, eppure se non sei Pirlo è difficile che ti riesca perfetta al primo tentativo. Meglio Messi o Pjanic? Bella lotta, ma io dico che sta meglio Allegri per un motivo semplice: conta chi tira ma anche chi para, e la Juve ha Buffon“.

Sul rapporto con Puyol: “Non c’è incontro, telefonata o sms con Puy che non cominci così: Holahermano. Mi ha sempre visto come fratello maggiore: fu il mio punto di riferimento appena arrivato ­ in Spagna il capitano ha anche quel ruolo ­ e io sono stato il suo dopo. Ero il più vecchio, quello che aveva vinto di più e per il “nostro” Milan c’era una specie di venerazione: “Mi hai insegnato a fare il capitano”, mi disse tempo dopo. Non so se da Zubizarreta abbia imparato a fare il direttore sportivo, ma so che Carles non può non lavorare nel Barça: se ne avrà voglia anche da presidente, ma deve studiare. E per qualcosa credo si stia preparando”.

Sulle seconde squadre: “In Spagna sono legge e da noi utopia. Poi basta non lamentarsi se l’ultima crescita dei nostri giovani non è curata da allenatori di casa; se i Primavera vanno all’estero e non in Lega Pro; se leggiamo che 18 dei 23 della Germania campione del mondo hanno giocato nelle seconde squadre e che nella Spagna stradominatrice erano 20 su 23, tutti tranne Piqué e Fabregas presi da Manchester e Arsenal e Diego Costa che era brasiliano. E’ diversa la password: le seconde squadre servono a formare giocatori, non a vincere campionati. Ma da noi conta prendersi il Viareggio”.

Leo, i campioni si vedono in partenza: “Messi fu il primo giocatore del Barça che conobbi. Me lo presentò Laporta, mi disse “Vedrai” e Leo arrossì. Era timidissimo. Mi bastarono due torelli per vedere. Da una parte si mettevano sempre i “normali” ­ Xavi, Iniesta, Puyol: quelli della Masia ­ dall’altra i “subnormali”: Dinho, Eto’o, Deco, provava a intrufolarsi Maxi Lopez e tutti a dirgli “Ma dove vai?”. A Leo non lo diceva nessuno: se l’erano preso loro, e in mezzo non ci finiva mai. Il giorno del suo primo gol con il Barcellona, con l’Albacete, ero in panchina: spiovente dal centro verso sinistra, stop, pallonetto sul secondo palo. Una meraviglia, annullata per fuorigioco: entrammo in campo, tutti furibondi tranne lui. E poco dopo: spiovente, stop, pallonetto sul secondo palo, gol.

Guai a far arrabbiare il divalo: “Dopo il 3­-0 di Torino è “morta” la domanda ­ più sfavorito il mio Milan nel ‘94 o la Juve oggi? ­ Ma non un’impressione: anche prima di martedì, l’ambiente Barcellona aveva un altro rispetto della rivale italiana. Figuriamoci: a noi mancavano Baresi e Costacurta e da 15 giorni sfottevamo Filippo Galli, “Non giochi, piuttosto mette Desailly o Panucci in mezzo”. L’ultima molla per batterli fu, la mattina della gara, una foto sui giornali spagnoli: Cruijff in posa accanto alla Coppa. Aveva appena detto: “Come possiamo perdere se noi compriamo Romario e loro Desailly?”. Sala da pranzo, sala riunioni, spogliatoio: quella foto la attaccammo ovunque”.

Iniesta, nessuno come Lui: “Della mia rosa sono rimasti in due, ma a quei tempi Andrés giocava molto più di Leo. E 12 anni dopo gioca ancora, per un motivo semplice: non ce n’è uno meglio di lui. Anche se non può più fare l’esterno sinistro come allora e magari il dribbling, che gli viene sempre facile, non è più esplosivo come quando lo voleva il Real, vedendolo erede di Zidane. Iniesta è il modello di quello che dovrebbero essere i giovani italiani: cento partite già giocate a 20­-22 anni, non 24­-25, e il talento gestito nel modo giusto. Si inizia prestissimo e poi magari capita di stare a sedere: non è essere messi in discussione, è essere preservati, tutelati. E fatti crescere nel modo giusto».

Tanti complimenti per Allegri: “Il calciatore Allegri per me resta quello che vidi in Pescara-­Milan 4­-5 nel 1992. Primo gol in A, autogol di Baresi procurato, assist: un’iradiddio. L’allenatore Allegri, se dividiamo i tecnici in gestori come Capello e insegnanti come Sacchi, è anzitutto un grande gestore di grandi personalità. La sua prima Juve “a cinque stelle” mi ha fatto pensare questo: se appena arrivato fu intelligente a non stravolgere il lavoro di Conte e a riplasmare la squadra al momento giusto, stavolta la sua vittoria è stata mettere in campo un progetto che andava oltre la sua stessa filosofia. Come? Convincendo tutti a fare dei sacrifici: gestire è anche, soprattutto, questo”.

Redazione

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