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Addio Fabrizio Frizzi, un sorriso dal palco e il cuore diviso tra la Roma e il Bologna

Il sorriso che diventava risata contagiosa, l’educazione, il garbo, l’empatia con il pubblico. Fabrizio Frizzi era il presentatore che entrava nelle case degli italiani chiedendo permesso. Come si usava una volta. Modi della tv del passato e tempi e ritmo della televisione moderna.

Il tempo non sembrava scalfirlo, anzi. Nel corso degli anni, pareva ringiovanire. Almeno fino all’ottobre scorso, quando un malore lo costringe a interrompere una registrazione de “L’Eredità”. È la sirena che annuncia l’inizio di una battaglia impossibile da vincere. Nei suoi ultimi cinque mesi di vita, Fabrizio combatte con le armi di sempre: determinazione e sorriso. Riesce persino a tornare al lavoro. È la sua scommessa vinta, l’ultima di un uomo che ha passato gli anni ‘90 a presentare quelle più improbabili di concorrenti eccentrici. “Scommettiamo che” era un mix perfetto: la sua pacatezza, le stranezze dei partecipanti. Freno e frizione, una miscela che teneva oltre 10 milioni di persone incollate allo schermo.

C’erano anche la sera del 23 maggio del 1992, poche ore dopo l’attentato di Capaci in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone. Frizzi ricordò le vittime prima della puntata, visibilmente combattuto fra la voglia di fermarsi e il dovere di andare avanti. Espresse lo sdegno e l’orrore per quelle morti, uscì di scena e rientrò con un pallone da basket. La sua passione più grande. L’oggetto di una successiva scommessa, ma forse anche l’amico a cui aggrapparsi in quei minuti.

Tutti gli occhi addosso e il dubbio di trovarsi dalla parte sbagliata. Anni dopo, in un’intervista, avrebbe definito quella serata “il momento più buio” della sua carriera. Gli dissero che occorreva dare l’impressione di un Paese che non si fermava. “Forse avrei dovuto essere più risoluto e tornarmene a casa”, disse in seguito. Quel dolore lo torturò a lungo e forse solo quel pallone arancione poteva comprenderlo.

Lo sport era la sua via di fuga dagli studi televisivi. Le sciate in montagna, le escursioni in moto con l’amico Max Biaggi, il tifo per la Ferrari, forse la sua ultima gioia sportiva. E il calcio, naturalmente. Amava la Roma, la squadra della sua città. Ma anche il Bologna, il club per cui tifava suo padre Fulvio, stesso nome di Bernardini, l’allenatore che guidò i rossoblu all’ultimo scudetto della loro storia. Era il 7 giugno 1964, spareggio a Roma contro l’Inter. Fabrizio aveva 6 anni e lo visse sugli spalti accanto a suo padre. “Da quando se n’è andato, nel 1982, il mio cuore batte anche per il Bologna”. E infatti, nel 2009, Fabrizio presentò la serata del centenario del club. Nel ricordo di Fulvio e di quel giorno all’Olimpico.

Giallorossi e rossoblu lo hanno omaggiato sui social. Sabato prossimo, sembra incredibile, si gioca Bologna-Roma. Il suo derby del cuore. Quello che non potrà condurre, dopo averne presentati 22 nell’ultimo quarto di secolo. Ma scommettiamo che… avrà un posto in prima fila.

Addio Fabrizio, campione di solidarietà e di semplicità.

Claudio Giambene

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