Ah, il Cavaliere. Lo rivedo con quel fare sicuro, ma buono, la parlantina catanese e un po’ roca, quella carezza affettuosa che mi riservava sempre quando mi vedeva. Io, piccolino, avrò avuto nove anni, figlio dell’allenatore del suo Catania. Era il 1983. L’anno del ritorno in A, la coppia Massimino-Di Marzio nei cuori di un’intera città. In tanti lo ricordano per le sue famosissime sparate: “C’è chi può e chi non può, io può!“, oppure per quel “prosciutto che sa di pesce” ovvero il salmone. Tutte vere peraltro. Figlie di una genuinità che troppo spesso si confonde con ignoranza.
Massimino aveva studiato come fare palazzi nei cantieri e come fare calcio sui campi. Non a scuola. E per questo era amato dai tifosi, rispettato dai giocatori, anche quando si lamentavano. Una volta Sorrentino (il padre di Stefano, adesso a Palermo) andò a chiedergli i guanti nuovi visto che era un portiere: “Caro Sorrentino, i guanti…o a tutti o a nessuno!”, e finiva con una risata che sanciva la sincerità di un rapporto tra presidente e squadra. E con mio padre? Rapporto amorevole, ma anche burrascoso. Non erano caratteri facili da mettere insieme. In fondo però si volevano bene.
Il Cavaliere non lo chiamava Mister come tutti, ma “Misterio” ed era il suo modo per distinguersi. Per Massimino c’era sempre una soluzione, anche se semplicistica. A Foggia prima della partita, sul pullman, mio padre si lamentava. “C’è foschia oggi presidente”. E lui, “nessun problema, lo facciamo marcare da Ciampoli…” che all’epoca era il difensore deputato a seguire a uomo ogni attaccante, quindi poteva pure fermare la nebbia. Massimino era di parola: pagava poco, ma pagava. Qualche litigata negli spogliatoi per i premi-promozione, è vero, ma alla fine lui manteneva sempre gli impegni. Come quei presidenti di un calcio che non c’è più, da Rozzi ad Anconetani. Quelli che ci mancano tanto, anche a vent’anni dalla loro scomparsa, come Angelo Massimino. Il Cavaliere della Catania calcistica
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