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Data: 13/12/2017 -

Un mare di gavetta...e di caffè, la storia di Antonino Asta: "La sveglia alle 5.30, il bar e un sogno nel cassetto. Trapattoni, tra (mancata) foto-ricordo nell' '89 e quella convocazione..."

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Hic et nunc. E’ questa la triste parafrasi sillabata del mondo attuale. Qui ed ora, tutto e subito. Pazienza? Zero. Sacrifici? Ancor meno, non sono importanti. E’ la deprecabile metamorfosi sociale, impostasi tra un cabaret televisivo e l’altro. Dove basta esser belli, fortunati e un po’ scollati per ottener quel ‘tutto e subito’, che lacera nel profondo ogni qual altro valore che non sia il desiderare l’indesiderabile e il non comperare l’oggetto più costoso. Questione di modelli, questione di comodo e di guadagno. Il risultato? Un homo ludens nella sua forma più istupidita e acritica. Che non pensa, non ragiona, non agisce. Si indigna per i problemi del Paese, ma non riesce a spegnere la tv e a scendere in piazza. Homo ludens tra un app e l’altra dell’iPhone o tra un sito e l’altro di abbigliamento. Homo ludens perso nel cammin di nostra vita, depauperato dei valori più importanti e di tutto ciò che non sia pertinente al funzionamento di una società malata e irreversibilmente permeata da una ‘non cultura’ del lavoro e del sacrificio.

Parlare è facile, fare un po’ meno. Spesso siamo i primi ad esserne consapevoli e a scontrarci cotidie con la triste realtà del vorrei provare a cambiare qualcosa, salvo poi retrodatare in un’amecania così lancinante da far appiattire la coscienza. Sulla falsariga dell’indimenticato Seneca, dunque, non ci proponiamo di indicare la felicità, ma – forse – la via che potrebbe condurre ad essa. Al lavoro, al sacrificio e alla sua sana cultura, nella fattispecie. Utilizziamo, quale medium bellissimo, la storia di Antonino Asta, attuale allenatore del Teramo ma con un passato importante da calciatore tra Serie A e Serie B.

Una persona sincera, leale. Plasmato a suon di sacrifici dall’unico, vero e autentico ginnasio che possa esistere: la vita. Per dar risalto ad una storia che deve esser raccontata e letta tutta d’un fiato (seguita da un’attenta riflessione su quella che è deve essere la virtute autentica della nostra esistenza), cercheremo di interrompere il meno possibile il file rouge di una narrazione che trasuda una così alta moralità da dover essere sic et simpliciter ascoltata.

“Mi chiamo Antonino Asta e sono nato il 17 novembre 1970 ad Alcamo, provincia di Trapani. Della mia infanzia non c’è molto da dire. Non è ricercando l’extra-ordinarietà che si esalta un racconto. Ma perseguendo soltanto un po’ di sana verità. La mia infanzia, dunque, tutta scuola, pallone e famiglia. Ricordo le partitelle con gli amici nella viuzza dietro casa. E, a seconda dell’estrazione del campo, erano problemi seri (sorride) perché questa viuzza in realtà era un sali e scendi, quindi chi giocava in discesa spesso e volentieri vinceva. A momenti contava più vincere la conta del 'campo o palla' che la partita stessa.

Lì ad Alcamo ho fatto fino alla quarta elementare, poi ho continuato gli studi su a Milano, dove la mia famiglia si era trasferita per lavoro. Vivevamo nel Quartiere degli Olmi, vicino a San Siro. Io ero piccolo, da giù a su, un cambiamento repentino. Ma le sfide non mi hanno mai spaventato, penso sempre che fortifichino nel corso della vita. E poi avevo un minimo comune denominatore, una certezza assoluta: il pallone. Mio zio mi aveva iscritto ad una scuola calcio milanese, l’Aldini, peraltro affiliata con il Milan. Ero abbastanza bravo, venivano spesso a vedermi, ma non mi prese mai il Milan perché ero troppo basso. Poco importa, il mio cuore in fondo è sempre stato un po' interista come quello di papà e di mio fratello. Papà ci portava spesso a San Siro a vedere i nerazzurri, erano gli anni ’80. E di quegli anni ho due ‘foto’ in particolari stampate nella mia testa e nel mio cuore come ricordi indelebili. Un incredibile Inter-Brasile, sì avete capito bene, in uno stadio stra colmo di persone e uno spettacolo per gli occhi incredibile. E poi l’altra, che reputo l’inizio di un cerchio che solo tanti anni dopo si sarebbe chiuso e in una maniera così inaspettata che se ci ripenso ancora oggi mi scendono le lacrime. Lo scudetto dei record nell' '89 con Trapattoni in panchina. Io ero quasi ventenne, giocavo in Promozione e quando potevo la domenica andavo allo stadio. Eravamo lì io e mio fratello e a fine partita, nel corso dei festeggiamenti, aprirono i cancelli ed entrammo in campo. Trapattoni lo vedevo da lontano, mi sarebbe piaciuto avvicinarmi a lui e farci una foto, ma era impossibile in mezzo a quella calca di gente”. Questo particolare tenetelo ben a mente, tornerà in maniera incredibile tredici anni dopo. Perché, sì, a volte il destino sa essere incredibile…

“Finiti gli studi, intrapresi un nuovo percorso di vita. La mattina lavoravo come barman nel locale di mio zio e la sera andavo ad allenarmi, mi sembra fossi ancora in Promozione. Volevo giocare, sognavo il calcio. Ma, d’altra parte, eravamo numerosi e c’era necessità di portare i soldi a casa. Mi svegliavo tutte le mattine alle 5.30, andavo al bar, sistemavo il bancone e alle 7 in punto aprivamo. Io ero attaccato alla macchinetta del caffè. Mio fratello prendeva gli ordini ed io facevo i caffè. Il bar era lì alla Stazione Centrale, quindi – racconta Asta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – potete immaginare che turbinio di persone. Poi ne aveva un altro di bar mio zio, sotto il Pirellone, dove si lavorava ancor di più. Io dalle 7.30 alle 9.30 non avevo nemmeno il tempo di voltarmi, un caffè dietro l’altro, senza fermarmi. Mi avevano messo a fare i caffè proprio perché ero rapido, scattante. Ma non mi è mai pesato, anzi. Stare lì, a lavorare con la mia famiglia mi piaceva. Poi certo sarei un ipocrita se non ammettessi che quando vedevo i miei amici che andavano a ballare ed io che dovevo andare al letto perché la mattina mi sarei dovuto svegliare tra le 5 e le 5.30, un po’ mi prendeva male”.

Tra le 6 le 6.30, dopo aver sistemato il bancone e poco prima di aprire il bar, Antonino sfogliava le pagine del giornale. Si soffermava sempre sulla Serie C, vedeva le figure, leggeva qualche riga e lo richiudeva. Poi esclamava a suo fratello, mi basterebbe un anno in C2, non sai cosa darei’. Poi la C arriva a 24 anni a Monza, a 28 l’esordio in Serie A. Nel bel mezzo di un mare di gavetta e di caffè, di sacrifici e di corse contro il tempo. Il tempo, già. Che spesso vediamo come tiranno. Tiranno di tutto. Della nostra giovinezza, delle nostre certezze. Eppure, se lo vivessimo nella sua pienezza, probabilmente non lo interpreteremmo in maniera tale.

Ma non è tutto, la favola di Antonino non è mica finita. A 31 anni si chiude il cerchio nella maniera più bella, con l’esordio in Nazionale. Prima ed unica presenza. Trapattoni Ct, quello stesso che tredici anni prima, cercavo nella pancia di San Siro, da tifoso nerazzurro, per scattarci una foto ricordo. La vita è strana, il destino è strano. L’importante è non pensar mai di non potercela fare, se ci precludiamo anche solo la possibilità di provarci, abbiamo già perso”.

Infine la carriera da allenatore. Comincia con gli Allievi del Torino… “Ogni santo giorno mi fermavo a vedere gli allenamenti di Giovanissimi ed Esordienti, al che i rispettivi allenatori mi guardavano sbalorditi...’Ma questo ha giocato in Serie A, perché viene a vedere i nostri allenamenti?’. Perché nella vita c’è sempre un qualcosa da imparare, la sete di conoscenza è fondamentale in ogni ambito. Dopo le esperienze a Bassano, Lecce e Feralpisalò, quest’anno ho deciso di ripartire dal Teramo. C’era voglia di ricominciare con un progetto giovane ed io per i giovani ci sono sempre…”.

Un cerchio perfetto. Uno spaccato di (vera) vita quotidiana. Un quadro realista di semplicità e valori. Se l’arte è bella perché esposizione universale del soggettivismo, allora proviamo a pensare ad un dipinto. Vi diamo anche al titolo, ‘lavoro e sacrificio’.

Tags: Lega Pro



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