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Data: 13/09/2017 -

Torino, la fede, il lavoro... A tutto Sannino: "Mi chiamavano Ciabattino! Per dieci anni ho pulito i cessi in ospedale. Dalla mia Triestina voglio sudore e fatica"

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La bellezza di ogni storia risiede nel messaggio che essa riesce a trasmettere. Qualunque esso sia: di speranza, di ambizione, di gioia e quant'altro. Se essa non trasmette nulla (difficile ma possibile) o i contenuti sono assai avari o la voce narrante non è in grado di assolvere il proprio compito. Detto che non esiste verità assoluta (lo stesso concetto di ‘assoluto’ probabilmente non appartiene alla dimensione umana a maggior ragione in un’epoca incentrata su globalizzazione e iper relativismo), è forse il sillogismo interpretativo – diverso di persona in persona – ciò che colora, rende autentico un racconto: qualsiasi esso sia.

Quella di Giuseppe Sannino è una storia che pullula di contenuti: calcistici, umani, reali, sinceri. Di quelle che ti ammaliano, che ascolteresti per ore e ore. Seduto, senza batter mai le pupille, estasiato dall’umanità che riesce a trasmetterti. Come un bel quadro, che osserveresti all’infinito. Un dipinto dal quale non riesci a staccare gli occhi. Che ogni volta vuoi andarlo a visitare perché – in qualche modo – ti prende: con i suoi contenuti e soprattutto con il suo inestricabile fascino interpretativo.

La voce è quella di un uomo, di sessanta anni solo apparentemente, estremamente innamorato del proprio lavoro. La voce di una persona alla quale la vita – davvero – non ha mai regalato nulla, fin da bambino. Prego, mister… “Sono nato a Ottaviano, in provincia di Napoli, ma all’età di 11 anni mi sono trasferito a Torino perché mio papà era stato assunto in Fiat. Torino mi ha dato tanto, mi ha dato la possibilità di crescere in un certo modo…e in fretta! La vita mi ha imposto di crescere in fretta. Ero il classico scugnizzo, tutto calcio e scuola. Gli amici mi chiamavano ‘ciabattino’ perché giravo – spesso anche d’inverno – in ciabatte e pantaloncini corti. Poi usciti da scuola mi toglievo le ciabatte e ci facevo i pali della porta sul marciapiede. Ho cominciato a giocare così a calcio, scalzo su un marciapiede. Da giocatore ho fatto una carriera modesta, probabilmente ciò che meritavo. A 31 anni ho cominciato ad allenare, sono partito da lontano: dalla polvere. Ecco, mi voglio soffermare un attimo su questo punto! Voglio dare, se posso, un consiglio ai giovani tutti: nella vita non prendete mai scorciatoie, non servono. Anche se sul momento vi sembrerà la cosa giusta e forse quella più razionale e facile, non prendete mai scorciatoie perché poi al primo ostacolo non avrete i mezzi per superarlo e sarete costretti a tornare al punto di partenza. Nella vita le cose si guadagnano con sudore e fatica, nella dignità e nel rispetto. Diffidate da questo aspetto che ci ha portato il progresso, camminate passo dopo passo. Camminate con le vostre gambe!”.

Siamo nella morale, quella vera. Se è un maestro di calcio saranno i risultati a determinarlo (quattro campionati consecutivi vinti in cinque anni…), ma al di là di ogni ragionevole dubbio, Giuseppe Sannino è un maestro di vita. Perché dall’alto della sua esperienza ha molto da insegnare. E lo fa nella maniera giusta. Parla con compostezza, coi termini appropriati, con un’apertura al dialogo invidiabile… “La mia storia – racconta Sannino ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com - dice che dopo aver smesso di giocare per dieci anni ho lavorato in ospedale, cinque in quello civile e cinque in quello psichiatrico…i famosi manicomi! Mi svegliavo alle 5 di mattina,900 euro al mese, facevo il mio turno e tornavo a casa. Il mio lavoro consisteva nel pulire i cessi. Ma questo tipo di esperienze ti fanno aprire gli occhi sulla vita reale, servono. Insegnano più di qualsiasi altra cosa! Lì non esiste scusa, non esiste permesso, non esiste ‘quel collega non mi piace quindi non ci lavoro’. Il lavoro è lavoro, punto. Ti piaccia o no lo devi fare e zitto. Il lavoro in ospedale ha segnato la mia vita. Ho potuto conoscere tante storie, soprattutto ho potuto conoscere la sofferenza, quella vera. Ho visto morire persone a me care, ho visto morire miei tifosi perché io a Voghera da calciatore avevo fatto bene ed ero un idolo. Ho visto scene di fronte alle quali ti pieghi, ti spezzi, ti fai mille domande, piangi, ti chiedi ‘perché?’ e non riesci a darti risposta, non ci dormi la notte. Al manicomio uguale. Persone lucidissime nella loro follia, con un talento innato ad esempio nella pittura. Vivevano di milioni di caffè e sigarette e realizzavano opere incredibili. Ho scoperto la mia dimensione di fede. Io credo che esser credente non significhi andar a Messa tutte le domeniche con l’abitino nuovo e il suv ultimo modello. Credere significa aiutare una signora anziana in difficoltà, significa fare una carezza ad un bambino che piange, significa sorridere – o almeno provarci – ogni giorno della nostra vita”.

Onesto, passionale, sanguigno, sincero. Non c’è molto da aggiungere, non ha maschere Giuseppe Sannino. Non appare, è. Non gli interessa farsi bello agli occhi di terzi, gli interessa viver rettamente nell’alveo delle sue idee. E’ molto fatalista, asserisce con tono deciso un motto tanto caro a quella Tyche greca… E’ tutto scritto”. Esatto, è tutto scritto. Scorriamo, dunque, i rotocalchi: così, giusto per. Quattro campionati vinti consecutivamente, a cinque sarebbe stato record mondiale. Tre anni a Varese senza mai perdere una partita in casa. Un campionato, sempre a Varese…vinto prendendo la squadra all’ultimo posto. Record a Siena e al Watford con quel due a zero a fine primo tempo (poi sconfitta quattro a due) sul campo del Manchester City. Momenti che restano così, impressi nella mente… sulle note di Eros Ramazzotti.

Carpi, quale unica nota negativa. Non le manda a dire Sannino, la schiettezza per lui è valore altissimo… “Dato che stiamo sempre a pontificare, a parlare di calcio vero, di modello da esportare…ora vi racconto questa! C’era una squadra il Finale Ligure che militava in Eccellenza e dalla quale scoprii Barberis, giusto per dire. L’allenatore del Finale, Pietro Puddu, un grande professionista è divenuto con il tempo un mio caro amico. Una sera mi chiama e mi fa, ‘Giuseppe domani giochiamo la partita decisiva per salire in Serie D ci terrei molto se tu la venissi a vedere’. Che problema c’è? Ero a casa, già esonerato dal Carpi, prendo e la vado a vedere. Andai lì in pantaloncini, caldo boia quel giorno. I ragazzini quando mi videro come è giusto che sia – credo – mi cominciarono a chiedere autografi, foto, mi misi a scambiare due palleggi con loro. Tutto normale no? Il giorno dopo il Carpi ha mandato una lettera in Federazione scrivendo che io, nonostante fossi sotto contratto con loro, quel giorno lì mi ero messo ad allenare una squadra di Eccellenza. Risultato? 10mila euro di multa che il sottoscritto ha puntualmente pagato. Roba da non crederci…”.

Dulcis in fundo la Triestina“Sono voluto venire qui fortemente. Sia per il grande legame con Mauro Milanese, il quale è stato un mio giocatore nell’annata storica a Varese sia per l’importanza della piazza. Avrei potuto aspettare, fra un mese avrei allenato in B. Ma a me non interessa categoria, numeri, nomi. A me interessa lavorare con i valori ai quali credo, interessa sudare, voglio mangiare la polvere. Il resto è niente, chiacchiere. Sarei rimasto qui anche se la Triestina non fosse stata ripescata. Sono in una città splendida, stupenda con un attaccamento incredibile alla squadra e con persone serie come Mauro e suo cugino Biasin. Vogliamo, passo dopo passo, provare a costruire un qualcosa di importante qui. Se lo merita un popolo di grande dignità come quello triestino, dopo anni bui e fallimenti”.

Lo dobbiamo salutare, i dieci chilometri giornalieri lo aspettano. Tutto di corsa, nel calcio come nella vita. E un’ultima, importante convinzione quale chiave di volte delle giornate di Giuseppe Sannino, esser sempre e comunque dalla parte degli ultimi, dalla parte dei più deboli”. Sudore e polvere, polvere e sudore. Il resto non è né scaltrezza né furbizia: è solo aria…

Tags: Lega Pro



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