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Data: 17/05/2017 -

'Nove anni a panini e bottigliette d'acqua..'. Pea si racconta: "Gli inizi all'Oratorio dei Cappuccini, il collegio tutto nerazzurro e quel ragazzo che raccoglieva margherite..."

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‘Basta crederci…’. E’ forse questa una delle frasi che più di ogni altra ci accompagna nel corso della nostra vita: infanzia, adolescenza, gioventù, vecchiaia…Lei c’è sempre! Usata, abusata, a volte logorata al punto da perder quasi del tutto quel bellissimo significato che pure palesa. Ma funziona così, soprattutto in un mondo che non crede più a nulla, attaccato al materialismo quale unica, possibile ancora di salvezza da una quotidianità, una normalità dalla quale si auspica soltanto di andar oltre.

E se le parole, almeno quelle sopracitate, non riescono più a render bene un concetto estremamente importante - perché se smettiamo di credere in ciò che facciamo, se smettiamo di essere ambiziosi finiamo col rassegnarci alla triste amecania – allora è giusto lasciar spazio alla fattualità. E’ un po’ la storia di Fulvio Pea, ora allenatore del Pro Piacenza e con un passato illustre nelle giovanili di Inter, Sampdoria (e non solo)… “Io non ho mai giocato a calcio quindi diciamo che è stato tutto più complicato. Ho cominciato ad allenare a 21 anni all’Oratorio dei Cappuccini di Casalpusterlengo. La cosa bella è che nonostante facemmo un solo punto in quattordici partite, in un anno i ragazzi iscritti da nove divennero trentasei. Oggi sono tutti padri di famiglia e quando li incontro si ricordano ancora di me, delle mie ‘tattiche particolari’. I miei allenamenti, infatti, erano più nello spogliatoio che in campo: vestirsi da calciatori, fare la doccia da soli, rivestirsi senza l’aiuto di mamma e papà. A quell’età sono queste le cose che gli servono, il campo può anche passare in secondo piano. Devi riuscire a trasmettere loro entusiasmo, gioia. Un allenamento ben riuscito non è quello nel quale gli fai fare chissà che cosa, ma quando vedi che tornano a casa con il sorriso. E io ancora oggi cerco di mantenere questo aspetto ludico. Il calcio è un gioco, non scordiamocelo mai…”.

E’ stato difficile per Pea lasciare quel mondo lì, il sorriso dei bambini, il loro entusiasmo, quel ‘mister, che facciamo oggi?’. Ma nulla si abbandona mai del tutto, la nostra mente tende a custodire ciò che di bello abbiamo vissuto e a farlo riaffiorare al momento giusto. In quelle lunghe, lunghissime giornate tra Casalpusterlengo e Lodi, ad esempio… “Lavoravo in una palestra come insegnante di fitness e aerobica perché non prendevo una lira e in qualche modo dovevo andare avanti. Il ricordo è di nove anni di panini e bottigliette d’acqua, era questo il mio pranzo. Staccavo da palestra alle 14 e partivo per Lodi dove allenavo il Fanfulla. C’era un certo Alessandro Matri…Dovevo sempre augurarmi di giocare il sabato perché lui la domenica non c’era mai, doveva andare a correre con la bici”.

Tanti sacrifici, ma cosa non si fa per passione? ‘Non ho bisogno che sia facile, ho bisogno che ne valga la pena’, è forse questa la massima più azzeccata. Ma se credi davvero in quello che fai, ne vale sempre la pena. E, infatti, arriva la chiamata dell’Inter“Vado lì in qualità di responsabile del collegio del settore giovanile e vi posso assicurare che è un ruolo estremamente delicato perché lì devi essere un fratello maggiore più che un allenatore. Spesso i ragazzi quando sono lontano da casa sono fragili, smarriscono le loro certezze – racconta Pea ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com e tu devi essere bravo a parlarci nei termini giusti, a consolarli, a passare del tempo con loro. Ricordo che al mio primo anno da responsabile feci fare tutto di colore nerazzurro: tovaglie, coperte, lenzuola. Era importante trasmettere il senso di appartenenza, oggi in generale si è un po’ perso”.

Poi allenatore della Primavera nell’anno del Triplete. Mourinho, tra aneddoti“E una sensibilità che spesso non emerge dai media. Un giorno aveva bisogno di un giocatore dei miei e sapendo che anche noi eravamo in lotta per il campionato, mi fece scrivere il mio undici titolare. Io rimasi anche un po’ sorpreso, lì per lì non capivo… Dopo aver letto il mio biglietto, ne scelse uno di quelli che non avevo scritto. Fu un gesto bellissimo, di grande rispetto nei miei confronti”.

Sempre in giro per l’Italia Pea, a scoprir nuovi talenti. E quel giorno in un paesino, nel ravennate, dove sfocia il Po’ (come in un racconto dai contorni davvero fiabeschi)… “Io ero responsabile del settore giovanile del Ravenna e mi mandarono in questo paesino sperduto. Andai in un campetto, c’era un ragazzino che era di due o tre anni più piccolo rispetto a tutti gli altri e lo notavi subito perché stava lì, in mezzo al campo che raccoglieva margherite… Poi quando gli arrivava il pallone smetteva, dribblava tutti e andava a fare gol. Lo conoscete tutti, è Davide Santon…”.

La scorsa estate, Pea ha scelto il Pro Piacenza. Una stagione importante, culminata con il sogno playoff sfumato solo all’ultima giornata: “Parlando con il presidente Burzoni era nato un certo feeling e mi sembrava giusto svilupparlo. E’ stata un’esperienza molto positiva, che mi ha permesso di capire tante piccole, belle cose. Nella vita, d’altronde, tutto serve”.

Un passo alla volta, con un pizzico di sana ambizione e la consapevolezza di aver – in parte – già vinto nell’aver trasformato un hobby in lavoro. L’oratorio, nove anni a panini e bottigliette d’acqua, i sacrifici, ma soprattutto la virtù di non aver mai smesso di crederci, anche nei momenti più difficili. Perché, se amiamo davvero un qualcosa (qualsiasi esso sia), ne vale sempre la pena…



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